Il suo è un lavoro molto delicato, anche se poco conosciuto. Fa da cinghia da trasmissione tra l’Europa e gli Stati membri (comprese Regioni e altri enti pubblici) per realizzare infrastrutture e aiutare le piccole e medie imprese ad avere credito. Marco Giuliani è nato a Pisa nel 1973 e ci ha vissuto fino a 23 anni. Scuole elementari alla Nicola Pisano, le medie, il liceo Classico Galileo Galilei. Dopo la laurea in Giurisprudenza (alla Scuola Sant’Anna), si sposta per lavoro a Milano, Londra e poi in Lussemburgo, dove si stabilisce dal 2007. Sposato con Cristina, ha una figlia di 5 anni, Alice. I suoi genitori vivono a Pisa, suo padre, dopo una vita tra l’università e la chirurgia, è in pensione. Marco ha due sorelle: una vive negli Stati Uniti, l’altra a Firenze.

Qual è il primo ricordo bello che hai di Pisa?

Quando ero piccolo abitavamo in una viuzza dietro l’hotel Duomo, vicino a Via Santa Maria, e con mio babbo andavamo spesso a portar fuori il cane al mattino o tardi la sera in Piazza dei Miracoli. Allora mi sembrava normale, ma che privilegio poter camminare tranquillamente ogni giorno in una piazza così, ancora vuota dai turisti e da tutto! Per tutti gli anni a venire ho sempre considerato la piazza dei miracoli come una piazza “normale” per un pisano, fino a quando al liceo ci andavamo a chiacchierare stesi nell’erba, e a giocare a calcio o a rugby con gli americani di Camp Darby. Dopo gli attentati del ‘93 la piazza è stata poi chiusa per pericolo di terrorismo… sarebbe bellissimo poter riacquistare la piazza alla città, invece che tenerla chiusa come un gioiello da mostrare e basta.

Da quanto tempo vivi lontano?

Dal 1997, quando mi sono laureato e sono partito per andare a lavorare a Milano. Pensavo fosse solo un episodio, e all’inizio tornavo tutti i weekend, ma alla fine mi trovai a essere felice di passare dei bei fine settimana a Milano, o sulle Alpi, o ai laghi. A Pisa facevo tantissima bicicletta sul Serra, ma poi ho scoperto che anche pedalare sul Ghisallo e sui monti di Como e Lecco ha il suo perché. Per non parlare di quello che si poteva a fare a Milano avendo in tasca qualche spicciolo in più di quando ero all’università. Poi dopo sono venute Londra, Lussemburgo, e ormai sono stabilmente fuori da Pisa da venti anni.

Quanto ti manca la tua città?

Pisa mi manca molto e sono sempre felice di tornarci. Quello che mi piace è che, pur essendo piccola, grazie all’università c’è tutto quello che c’è in città più grandi, conferenze, concerti di grande livello, teatro, persone diverse con orizzonti illimitati… Non è una città senza niente da cui un giovane vuole scappare, anzi. E in più vicino ha mare, montagne, colline… cosa chiedere di più?

Ci spieghi un po’ meglio il tuo lavoro? In cosa consiste?

Difficile da spiegare. Lavoro alla Banca Europea degli Investimenti, che è il braccio finanziario dell’Unione Europea la cui funzione è finanziare infrastrutture e migliorare l’accesso alla finanza di piccole e medie imprese. In generale, quello che faccio io consiste nel cooperare con quegli Stati membri, o Regioni o altri enti pubblici, per mettere a punto strumenti che permettano di utilizzare i loro fondi strutturali in modo orientato al mercato e non mediante contributi a fondo perduto, che non sono sempre efficienti. Un lavoro bellissimo, che ti permette di aver a che fare con pezzi di settore pubblico in tutta Europa. All’inizio ero un po’ prevenuto, ma dopo anni di lavoro posso dire che ho rivalutato enormemente il settore pubblico e chi ci lavora, spesso senza particolari incentivi.

Se non avessi fatto questo mestiere, cosa ti sarebbe piaciuto fare?

Al momento di scegliere l’università, avevo quasi deciso di fare lettere classiche. Poi sull’onda emotiva dei fatti dell’estate del 93, Falcone, Borsellino, Di Pietro, gli attentati mafiosi, l’ondata di impegno civile che si respirava in quel periodo, alla fine scelsi giurisprudenza. Non me ne sono mai pentito.

La tua professione ti ha permesso di conoscere molto bene l’Europa, e non solo. Che immagine si ha dell’Italia all’estero?

Ottima. Può sembrare strano perché gli italiani sono negativissimi su se stessi, ma l’opinione diffusa è che pur nella nostra disorganizzazione abbiamo uno stile di vita fantastico, pieno di colore e fantasia. E penso che sia verissimo.

Raccontandomi la tua esperienza mi accennavi al diverso approccio che hai riscontrato in alcuni Paesi vicini (e per certi versi molto simili) come Croazia e Serbia, rispetto all’Europa. Ti va di parlarne?

È solo un’impressione. Quello che vedo è che ormai noi vediamo l’Unione come un partner importantissimo quando distribuisce soldi o altro, ma come un controllore scomodo e arcigno in tutti gli altri casi. In questo antagonismo si è un po’ perso il senso della cooperazione europea che è il sogno alla base della nascita dell’Unione. Ormai mi ero abituato a questo retrogusto, ma quando ho conosciuto da vicino Paesi candidati ad entrare nell’Unione, come ad esempio la Serbia, ho notato che per loro l’Unione è ancora un ideale, un obiettivo, una cosa bella da raggiungere e non solo un mercato economicamente vantaggioso. Sarebbe bello se riuscissimo a recuperare questo spirito anche noi, invece di invocare l’Europa solo quando c’è da giustificare scelte impopolari (“ce lo chiede l’Europa!”) per cui una politica seria non dovrebbe aver bisogno di capri espiatori.

Per il tuo lavoro ti è capitato di occuparti anche di progetti di sviluppo nei paesi africani. Ce n’è uno che ti ha colpito in modo particolare?

Tra tutti, l’Etiopia è quello che mi ha colpito di più per la sua varietà, i suoi monumenti, la sua storia che emerge da mille dettagli. La sua storia si esprime anche nel suo isolamento, e nell’orgoglio di non accettare aiuti o investimenti esteri se non in misura molto limitata. Come turista posso dire che dalle montagne del nord, alle chiese interrate nella roccia, ai deserti del sud, ha una varietà che sembra inesauribile, come del resto la gentilezza estrema degli abitanti. Gli italiani sono molto ben accetti, malgrado il passato, e i segni dell’Italia nelle città sono ovunque: entri in un bar e sembra di essere nella Roma degli anni ’50.

Cosa ne pensi dei cosiddetti “cervelli in fuga”, di cui spesso si è parlato negli ultimi anni?

Non so, il fatto che le persone partano in cerca di esperienze diverse di per sé è bello. Se a 20, 25, 30 anni parti per vedere il mondo, ben venga! Io, ad esempio, sono partito per la curiosità, non per cercare lavoro – lavoravo a Milano già da anni. Quello che è patologico è che ben pochi tornano. Se l’Italia fosse attrezzata per creare buone condizioni di lavoro per ricercatori, e professionisti, molti partirebbero lo stesso, ma molti anche tornerebbero. La verità è che il mondo è pieno di italiani che sarebbero ben felici di tornare a casa se esistesse un mercato del lavoro aperto, meritocratico, con opportunità vere e di lungo periodo. Insomma la partenza di tanti giovani che non tornano è una storia tristissima, è un fallimento per l’Italia e un motivo di frustrazione per tutti quei genitori che fino a poco fa avevano la gioia di invecchiare insieme alla loro famiglia e oggi vedono figli e nipoti su Skype.

Facciamo un gioco. Tra un certo numero di anni vieni eletto sindaco di Pisa. Ti siedi intorno a un tavolo con i tuoi collaboratori e indichi loro le prime tre cose che vuoi provare a fare: quali sono?

E chi lo sa oggi quali sono le priorità per Pisa. Così a occhio direi limitare le auto in centro, fare tante ciclabili, favorire l’uso della bicicletta anche mettendone a disposizione di pubbliche, supporterei in ogni modo le attività culturali esistenti come il Verdi e i vari teatri. Buona come piattaforma no?

Ti piace il calcio? Sei tifoso di qualche squadra?

Il calcio non lo seguo, ma il Pisa è l’unica squadra che mi sta a cuore da sempre. Come si fa a seguire queste squadre multinazionali grigie e conformi quando il Pisa è lì che ti aspetta?

C’è un giocatore del passato che ti è rimasto nel cuore?

Facile: Klaus Berggreen.

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