Scrittore e regista, Roan Johnson è un “pisano vero”, anche se è nato a Londra da mamma materana e padre inglese. Quarantatre anni, laureato in Lettere moderne, vive a Roma ma ogni weekend torna a Pisa. Ha due figli piccoli, Jacopo e Arturo, che ha avuto da Ottavia. Quando lo intervistiamo è un fiume in piena. Un romanzo che avresti voglia di leggere fino a notte fonda. Con una sola parola, “terribilità“, scritta nella prima riga del suo ultimo romanzo (Dovessi ritrovarmi in una selva oscura, Mondadori) ti tiene avvinghiato fino alla fine.

Sei nato a Londra da padre inglese e madre materana. Come sei arrivato a Pisa?

Sono arrivato a Pisa quando avevo solo sei mesi. I miei abitavano già in città, visto che entrambi insegnavano all’università.

Qual è il ricordo più bello che hai di Pisa?

Ce ne sono mille, è difficile risponderti ricordandone solo uno. A Pisa ho trascorso infanzia e adolescenza, fino a 19 anni, poi mi sono trasferito un anno a Padova, dopo un anno e mezzo in Inghilterra. Poi a Pisa, dove ho finito l’università. Da quando ho 25 anni abito a Roma. Ogni volta che tornavo a Pisa, facendo il percorso a piedi dalla Stazione a casa mia, in piazza delle Gondole, provavo la stessa sensazione di essere tornato a casa. Il mio posto. Poi gli orizzonti si sono sparsi…

Come ti senti ora quando torni a Pisa?

Il mio bimbo fa l’asilo lì e tutti i weekend sono a Pisa. Le mie radici sono lì e non credo siano mai passati più di due o tre mesi senza che tornassi nella mia città.

Il tuo primo ricordo sulla città?

L’asilo Frassi. Ho ancora diversi amici che ho conosciuto in quegli anni. Uno di questi, Mario Garofalo, regista che abita a Milano. La cosa curiosa è che ci siamo ritrovati dopo tanti anni a Città del Capo, in Sudafrica, dove entrambi ci trovavamo per un festival del cinema.

Hai sempre abitato alle Gondole?

No, a un certo punto con la mia famiglia ci siamo trasferiti in via Santa Marta, nel quartiere di San Francesco.

Che scuole hai frequentato?

Le Damiano Chiesa alle Elementari, poi le Medie alle Fibonacci e infine il liceo Classico.

Come sono stati gli anni all’università? Eri un secchione?

Ho avuto un periodo che definirei turbolento. Mi sono iscritto a Scienze Politiche a Padova, sull’onda dell’entusiasmo politico legato alla contestazione. Poi però sono tornato a Pisa, dove ho ritrovato la mia vena artistica e creativa, quella che, per certi versi, mi aveva trasmesso mio padre, che ha sempre amato scrivere. A Pisa mi sono iscritto a Lettere, con indirizzo Cinema e Spettacolo, ed ho frequentato il dipartimento San Matteo.

Che clima c’era?

Di tutto quell’ambiente il San Matteo era quello che mi sembrava più innovativo e meno “muffoso”. Era sicuramente innovativo e più ganzo…

Hai fatto occupazioni da studente?

Ho partecipato alla famosa “Pantera”, ricordo che ero in quinta Ginnasio. Devo dire che non ho amato per nulla quegli anni trascorsi al Classico. C’era un forte distacco dalla società, con una scuola rimasta all’età ottocentesca mentre il mondo era andato avanti facendo passi da gigante. Diciamo che il periodo dell’occupazione l’ho vissuto come una sorta di liberazione da quel senso di oppressione. A Padova ho continuato con la contestazione, come ti dicevo prima. Poi, tornato a Pisa, mi sono un po’ calmato.

Che luoghi frequentavi ai tempi dell’università?

La federazione anarchica, il Macchianera e tanti altri posti. Quando è finita l’esperienza del Macchia quelli più grandi si sono radunati davanti alla Tazza d’oro, in via San Martino. I più giovani, come me, hanno scelto Piazza delle Vettovaglie, dove l’unico bar chiudeva alle 8 di sera. Piano piano ha iniziato a restare aperto anche di sera e un pezzo di città è tornato a vivere.

Quando hai pensato la prima volta che avresti lavorato per il cinema?

Se devo essere sincero non ho mai avuto vocazioni per il cinema, ci sono finito quasi per caso. Sono partito sempre dalla scrittura. Tornato a Pisa, al secondo anno di università, non avevo idee molto chiare su cosa fare o non fare. Poi ho fatto la scelta che ti dicevo prima, al San Matteo, ed ho concluso con una tesi sul cinema di Quentin Tarantino e Danny Boyle. A quel punto mi sono chiesto, che faccio? Ero davanti a un bivio: un dottorato di ricerca in Inghilterra, quindi restando in ambito universitario, oppure buttarmi nello spettacolo. Ha prevalso la seconda opzione e sono entrato al Centro sperimentale di cinematografia di Roma.

È iniziata così l’avventura del cinema?

Dopo i due mesi propedeutici sono stato ammesso ai corsi come sceneggiatore, non avendo nessuna altre competenze o esperienze da far valere.

Quando hai pensato… “ce l’ho fatta”?

Non penso ancora di avercela fatta del tutto. Del resto il cinema è un mondo dove si vive il massimo di precarietà e instabilità. Se guardo agli ultimi anni, con il BarLume, faccio due conti e ti posso rispondere che sì, potrei riuscire ad andare avanti e a mantenermi per un po’ con tranquillità anche senza fare nulla. Aggiungo che senza il BarLume non avrei mai messo al mondo il mio secondo figlio. Però credo che tu possa dire davvero “ce l’ho fatta” quando senti di avere un minimo di reputazione. E di poter fare quello che ti piace.

Il punto di svolta, quindi, è stato il BarLume?

Ho avuto due momenti di svolta. Il primo è stato il film “Fino a qui tutto bene” (2014), poi “I delitti del BarLume”, dove sono subentrato alla regia dopo le prime due puntate.

Che mi dici di “Fino a qui tutto bene”?

È il rischio più grosso che ho preso, visto che me lo sono prodotto da solo. Ma è un lavoro che mi ha dato la sicurezza dei miei mezzi e la conoscenza quasi completa dello strumento regia.

Cosa vuoi dire?

Stavo dietro a tutto, dai costumi alle luci alla macchina da presa. Avevo in mano tutte le responsabilità e la completa libertà. Mi ha dato una gioia di fare questo mestiere che non avevo mai provato. Lì ho davvero capito di essere più regista che scrittore, e di voler fare questo mestiere.

Oltre agli impegni dietrola macchina da presa hai pubblicato anche alcuni romanzi, vincendo un premio per la tua opera d’esordio. Prossimi impegni?

Continuo sempre a macinare idee. Ho più idee che tempo a disposizione. Tieni conto che il BarLume mi prende una bella fetta dell’anno. Scrivere romanzi è una fatica immensa, molto di più che fare un film, però con un romanzo sei libero al 100%. Sicuramente sono approcci di lavoro molto diversi.

Parliamo dei Delitti del Barlume, di cui hai diretto la trasposizione cinematografica. Ci racconti com’è nata la cosa?

Avevo lavorato con la società Palomar, che ha prodotto “I primi della lista” (2011). Sapevano che ero pisano e conoscevano il mio modo di lavorare Quando mi hanno proposto di fare il regista della serie, però, non me la sono sentita subito.

Perché?

Non mi sentivo di lavorare su qualcosa di non mio. Magari se lo vuoi fare come compitino, ce la puoi anche fare, però non era quello che volevo in quel momento. Poi, dopo le prime due puntate, Palomar si è rifatta viva e a quel punto ho accettato, con la preoccupazione di entrare in un corpo da estraneo e non tradirlo. Ma essendo pisano sono stato avvantaggiato…

Conoscevi già Marco Malvaldi?

Personalmente no. Avevo letto però i suoi romanzi e mi erano piaciuti molto.

Com’è stato il lavoro per la serie?

Ci siamo discostati un po’ dai romanzi, usando anche dei racconti brevi di Marco. Diciamo che ci sono alcune differenze. A partire dal fatto che la serie è ambientata a Pineta, che potrebbe essere Tirrena o Marina di Pisa, mentre in tv siamo all’Isola d’Elba, a Marciana Marina. Poi Filippo Timi, il bravissimo attore che interpreta Viviani, è molto diverso dal personaggio. Ci sono stati, per così dire, dei cambiamenti strutturali diverso al mondo Malvaldi. È come avere due universi paralleli.

Il lavoro di scrittura della sceneggiatura come avviene?

Siamo in quattro persone a scrivere, più Malvaldi. In più c’è l’editing da parte di Sky e quello di Palomar. In tutto si parla di dodici persone che scrivono le battute e sviluppano la sceneggiatura. Un lavoro molto complesso, con continui rimbalzi.

Uno dei passaggi chiave della serie è stata la morte di nonno Ampelio. Cosa ci puoi dire a riguardo?

La cosa importante non è che Ampelio sia morto nella serie e non nei libri. Nella serie è stata fatta questa scelta dopo la scomparsa del bravo attore Carlo Monni. Abbiamo preferito far morire il personaggio anziché sostituire l’attore. Ma se mi domandi se sono stati salvaguardati tono e cuore dei romanzi di Malvaldi, la mia risposta è sì.

Negli ultimi mesi il mondo del cinema, specie in America, è stato travolto dallo scandalo delle molestie sessuali, con numerose denunce di abusi, in molti casi a distanza di anni, anche decenni. Che idea ti sei fatto?

Penso che il problema sia molto più grande di quello che è emerso. Bisogna essere bravi a capire che il mondo è ancora fondamentalmente maschilista e se lo è in Occidente figuriamoci nel resto del mondo. Spero che questa lotta, piccola e di nicchia, porti a incidere un po’. La speranza è che il futuro sia meno maschilista e più dominato anche dalle donne.

Il sito internet di Roan Johnson

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