Ma, mi raccomando!
Apocrifo intorno alla costruzione della Torre di Pisa
di Michele Andreoli
Nell’anno 1150 gli Anziani della Nobile Pisana Republica, avendo la città di Pisa, per la buona ventura delle sue armi di terra e di mare, cumulato bastevoli ricchezze e ori nonché ingegni sufficienti alla realizzazione di siffatto progetto, decretarono l’avvio della costruzione di una torre, la cui bellezza e ardimento di fattura avrebbe dato lustro e fama nei secoli venturi alle genti pisane. “Una sola condizione io pongo”, dichiarò il Podestà all’assemblea riunita, “e che cioè codesta torre abbi a pendere di non meno che gradi trenta!”.
Simil pretenzione parve ai più bizzarra oltremodo, ma lo intendimento che la Republica avesse ad onorarsi di un qualche monumento siffatto e che detto monumento dovesse superare in ingegno e bellezza quanti fin’ora di simil foggia fussero stati altrove eretti, parve cosa notevole e, invero, assaissimamente auspicabile.
Conciossiacchè, gli Anziani non tardarono a farsi persuasi all’idea del loro podestà; affinché, si dissero, la memoria della Republica sopravvivesse in qualche modo alla ruina materiale a cui tutte le cose che stanno sotto il sole certamente alla lunga substanno. Onde per cui non è meraviglia che, senza che niun’altra contrarietà si frapponesse all’impresa, il giugno dello stesso anno i lavori alla torre prontamente furono principiati. In confirmazione dello stabilito concetto, si chiamarono a Pisa ingegneri e matematici di gran fama et altra simile maestranza, in tale scienza versatissimi. Vennero in molti dalle terre vicine: da Ponsacco, Crespina, Chianni, da Stagno, nonché da altri luoghi della peninsula e financo Calabri, Siculi, Mantuani etcetera.
L’impresa si mostrava oltremodo ardita, inquantocché parve subito chiaro esser impossibil cosa che cotale siffatta costruzione avesse a pendere in guisa tal che il Podestà volea che fusse; e non anco leggiermente di pochi gradi, bensì per lo lunghissimo e altresì temerario intervallo di gradi trenta. A ragguaglio di quelli che parimenti credeano di soverchia gravità l’impresa, le maestranze incaricate tosto si condussero al cospetto del Podestà ed esplicarongli le lamentanze prodotte.
“Io resto intieramente quieto di quanto dite“, disse a questi il Podestà, “epperò grandemente stupisco che persone di gran litteratura quali voi siete abbino in così grave spavento un’opra che, alla fin fine, non parmi poi così ardita, o almeno non più che una egizia o tant’altre passate. Quali tra gli Autori gravissimi qui presenti avrebbe in tal modo scalpitato s’io gli avessi chiesto una piramide o ancor più spericolato costrutto? A colui dico che ben più animo richiedesi a chi brama oprare in nome e in forza della Nobile Pisana Republica“.
“Signore Illustrissimo”, rispose il Terozzola (carrucola), capo della delegazione e responsabile dei lavori alla Torre, “noi vegghiamo esser familiare e domestica cosa che le torri, quando fànsi, fànsi per lo più dritte, che è come dire a perpendiculo, e non giammai inclinate, come la Signoria Vostra richiede”.
“Orsù, omo! “,si stizzì il Podestà,”che codesta torre abbi a pendere per quanto ho detto, e cioè per non meno che gradi trenta, o mi rivolgerò ad altri!”.
“Signore”, continuò il Terozzola, il quale aveva fama di uomo che non s’arrendeva facilmente, “Illuminato e Illustrissimo Signore: io sono risoluto a fissamente ritenere tal cosa in guisa di estrema e totale pazzia. Ciononostante, almeno avrei caro d’intendere, per la pace dell’animo mio, non altro, cosa spinge vostra Altezza Serenissima a progetto così manifestamente fuor del comune …”.
“Che questa torre abbi a pendere”, inferì perentorio il Podestà, alterandosi, “e abbi a pendere di non meno che gradi trenta, o anco più, se vi piace, ma non meno, oppure accaderà che l’opra saravvi levata. Addio”.
Iniziarono dunque i lavori e alacremente progredirono per lo intervallo di anni quattro. La primiera metà dell’ardita costruzione (la cui intiera altitudine prospettavasi non inferiore a metri cinquanta (la torre è effettivamente alta circa 55 metri) non porse invero eccessive difficultà, né di progetto né tammeno di pratica realizzazione, inquantocché è pur vero che null’altra modificazione accorse se non quella di arditamente attenersi allo prefissato allineamento ed aver fede nella Provvidenza.
Attorno allo ben strano monumento le genti pisane fecero sì gran calca che i lavori ne furono ben presto impediti, sino al punto che, per ordinanza del Podestà, fu istituita speciale milizia che osteggiasse e altresì impedisse lo malo assembramento.
Puntualmente, ad ogni calar di sole, il Podestà e gl’altri Notabili andavano a mirare la straordinaria costruzione; la quale, benché ancora non fusse alta più che metri quindici, già prestamente suscitava la generale curiosità sia del popol minuto che parimenti quella degli studiosi di statica e degl’altri intelletti speculativi della Città.
“Ma mi raccomando!”, esclamava ogni volta il Podestà, poscia d’aver per lungo e per largo ispezionato i lavori, “mi raccomando, messer Terozzola: che abbi a pendere per quanto concordato, eh?”.
“Stia quieta, la Signoria Vostra” gli diceva il Terozzola amaro, “ché, quanto a pendere, codesta torre penderà senz’altro e in guisa tal che la pendenza non potrà che aumentare col tempo e nella proporzione stessa aumenterà anche lo scherno della Toscana e dell’Italia intiera”.
“Abbiate fede, messer Terozzola, abbiate fede!”, gli rispondeva allora il Podestà, benevolo, “e vedrete che l’arte vostra dovrà sostenervi“, e se ne andava per altre cure.
Due aristotelici livornesi (licenza poetica: Livorno è stata fondata alcuni secoli più tardi della Torre di Pisa!) di passaggio per Pisa, subitamente informati dell’ardito progetto che ivi i cittadini menavano e pieni di curiosità, si fecero indicare il sito e prestamente vi si recarono. La costruzione dovette parere ai due dotti cosa veramente bizzarra e inaudita. Ciononostante, ammutolirono e mirarono per lungo tempo. Dopodicché il primo disse al secondo:
“Ben strani uomini costoro se non sanno neanche che ogni corpo grave, costituito per qualsivoglia causa nello stato di quiete ma che per sua natura abbi a ritenersi intrinsecamente mobile, posto in libertà si muoverà e, pur principiando con moto tardissimo, anderà verso il luogo ove inclinazione natural lo tira, eccioè verso il centro della terra”.
Al che l’altro aggiunse:
“Dice Aristotile: quod non maneat precipitat; quod precipitatus est, non manebat”.
Detto questo, a voce alta gridò: “Chi conduce l’opera?”.
“Me”, rispuose il Terozzola, andando in contra ai due.
“Non sai tu, uomo di basso principio “, gli fece il dotto, “che ciò che è torto per sua stessa natura è corrotto, imperocché quest’opera tua è la più torta che mai l’occhi nostri abbian veduta?”
“Messère “, gli rispuose il Terozzola, “torto veramente può dirsi e corrotto ciò che volèvansi intender dritto e che dritto non fusse pervenuto; ma codesta opera che voi mirate, torta mi è stata commissionata e torta è, per quanto la vedete; cosicché voi ora a torto la dichiarate torta, imperocchè ella parmi, per converso, dritta, drittissima!”.
I due dotti dovettero ammettere che in quel senso la Torre avèa ad esser definita dritta e non torta, e tacquero.
“Volete voi dire che torta ve l’hanno commissionata e torta voi la fate?”, chiese il primo dei due.
“Aìne”, rispuose il Terozzola, che irpino era e che così in sua terra risponde chi vuole acconsentire e compiangere al medesimo tempo.
Il dotto puntò allora un dito sulla costruzione e, più serio che mai, sentenziò: “Messère: state pur certo che codesta Torre cadrà!”
“Non cadrà!”
“Cadrà, messere, cadrà!”, insisté, fermo, il dotto.
“E io vi dico che non cadrà”, s’arrabbiò il Terozzola, “inquantocché le mie impalcature, recando ad essa ad ogni vibrazione continuo impedimento, la terranno in piede”.
Ma proprio in quel mentre, come se la Stessa avesse inteso che di Essa andavasi discorrendo, la Torre crollò, accadendo in aggiunta che tre operai puntellatori fussero anco travolti dalla maceria. Per la qual cosa i lavori furono interrotti per lo spazio di due anni, per esser ripresi solo nella primavera dell’anno 1155 sotto l’illuminata direzione degli ingegneri Cocchiara e Treppieri (cocchiara=cazzuola, treppieri=treppiedi), anch’essi persone di gran litteratura e di chiara fama, nativi il primo dé Bruzzi et il secundo di calabra origine. Onde farsi più chiara intelligenza dell’opra, i due valorosi capomastri studiarono in lungo e in largo la città di Pisa affinché moglior sito e più abile disposizione lo monumento acquisisse. Tosto si decise che meglio fusse erigerlo su base quadrata per converso a quella circulare, essendo essi pienamente istrutti che quella geometria fusse maggiormente adatta a pendere per quanto il Podestà richiedeva.
In minor tempo che in anni due la torre fu sollevata, in Località Piagge, ove ancor oggi la si può ammirare e che i pisani chiamaron Torre di S.Michele (per i non pisani occorre dire che questa torre pendente, benché meno famosa di quella sita in Piazza dei Miracoli, esiste davvero ed è effettivamente a base quadrata).
Ira acerbissima e infinito risentimento s’impadronì del Podestà allorché chiaramente intese che non solum il Cocchiara e il Treppieri avevano avuto l’ardimento d’abbandonare senza consilio alcuno la circularità sed etiam la torre pendeva di appena gradi 13 ovverossia di 17 gradi in meno di quanto commissionato.
Il Cocchiara e il Treppieri furono prestamente licenziati e con infamia diffidati a ripor piede in futuro sul suolo della Pisana Republica. Appocciocché, il consiglio degli Anziani decise di bandire preliminarmente un Concorso a cui poteva partecipare chiuque fusse in grado di dar garanzia che la torre sua avesse a pendere per il voluto e che fusse altresì a base circulare e non altrimenti da quella.
Matematici e fisici d’ogni taglia e nazione vi si cimentarono. Ma, quando per soverchia spericolatezza dei progetti, quando per riconosciuta bizzarria dé medesimi, per lungo intervallo di tempo non si addivenne a niùna notevole conclusione. Fùvvi chi, ad esempio, propose di rinunciare ad una acclività di principio e che, se davvero questi pisani volevano una torre che pendesse, avessero a costruirla non torta su spazio dritto, bensì dritta su spazio torto, eccioé in località che per sua intrinseca proprietà afferisse naturale inclinazione.
Fùvvi altresì chi progettò torri a pendenza variabile, prodotta da non si sa quale macchinario interno alla base sua, et anco vi fu un ingegnere ellenico che propose di costruire di fianco alla medesima una specie di colosso in sembianza umana che la reggesse.
Quest’ultimo progetto parve ai più veramente notevole e artistica soluzione ma, invero, troppo dispendiosa per il pubblico erario nonché pur essa bizzarra, inquantocché costringeva a costruire un monumento per sorreggerne un altro, cosa questa davvero fuor d’ogni comune filosofia. Si giunse così all’anno 1158 e Pisa non aveva ancora la torre sua, imperocché ogni tentativo era risultato vano o troppo macchinoso a realizzarsi.
Finquando, un bel giorno, al Palazzo del Governo si presentò un certo Paròccola, bruzo per nascita, il quale, oltre a valoroso uomo d’arme, era pur anco versatissimo nell’arte dell’ingegneria. Era costui divenuto famoso per un certo suo scritto dal titolo “Studi sulla pendenza” e veramente può dirsi che nessun altro in quel tempo ne sapeva quanto lui a riguardo di sì difficile e, diciamolo pure, controversa materia.
Gli Anziani lo ascoltarono per lo intero, e senza verùno accenno di riso. Il suo progetto non potéa definirsi né ardito né altramente impossibile a realizzarsi, se non che parve lievemente fuor di senno.
Il Paroccola – citando qua e là ora Apollonio, ora Aristotile – parlò per lo intervallo di due ore buone, senza mai fermarsi e adducendo sempre ipotesi chiare e incontrovertibili. E fu così che in quel memorabile giorno si udirono discorsi del tipo: “… e poi ché veruna cosa produce se medesima, io dico che non è possibile che il movente e il mosso siano l’istessa cosa, epperocché …”.
Ma anche discorsi del tipo: “… ed è questo il punto principale che mi ha fatto sopramodo maravigliare. Inoltre, non potendoci avvalere di fili a piombo per le ovvie ragioni che sono sotto gli occhi di tutti …”, e qui l’Assemblea rise di cuore, “ … io propongo di costruire, a lato di quella, un piano inclinato che percorra il vertice e la base per tutta la sua lunghezza, affinché il grave che trapassasse in altrettanto tempo amendue quelli spazii, ispezionasse intieramente la voluta pendenza …”.
“Orbene”, lo interruppe ad un certo punto il Podestà, “restiamo intieramente istrutti di quanto voi temerariamente asserite. Ma, ora io vi chieggo: codesta vostra torre averà o non averà a pendere per lo dovuto intervallo di gradi trenta?”.
“Cioé, cioé …”, rispose il Paroccola, “…cioé. Non è che la torre mia avrà a pendere per sua intrinseca declività inquantocché, sia ben inteso, io la farò dritta, drittissima. Penderà, certo che penderà. Ma sarà l’occhio e non la fattura il principio efficiente della pendenza. Mi spiego ….”, e qui più volte il Paroccola si schiarì la gola, avendo ben inteso che era quello il punto fondamentale del discorso, “la torre mia sarà dritta, vi dico, e dritta parrà finquando, a costruzione ultimata, noi non faremo torto il terreno substante, con la qual cosa io significo: che alla base della Torre e per l’intiera estensione di piazza dé Miraculi io farò trasportarvi gran quantità di terra, bastevole a farla acclive per quanto pià vi piace e non solo di gradi trenta … “.
A questo punto il Podestà, che aveva alfine capito in cosa il progetto esattamente consistesse, si alzò di scatto in piedi e, senza profferir parola ma rosso in volto e fuor di sé, fece un cenno ai due armigeri che presidiavano la Sala e in men che non si dica il Paroccola si vide testé tratto in arresto e condotto ai ferri.
Il povero ingegniere, vista così disprezzata l’opera sua, cadde in istato di così smanioso sconforto che, solo e sconosciuto, nel giro di pochi anni morì. Di torri che pendevano, di acclività e declività, a Pisa non se ne parlò più per lo spazio di quindici anni.
Fu solo nell’anno 1173, poscia che fusse trapassato il vecchio Podestà e che altro più mite e meno pretenzioso venisse al suo posto, il progetto della torre fu ripreso e di buona lena conchiuso.
Forse che non pende quanto il vecchio Podestà sperava, ma certo è che si tratta di ugualmente meravigliosa e straordinaria opera quale mai più se ne faranno.
Con poca serietà, ma molta fatica,
Michele Andreoli