– Giovanni Caldara –
“Se vendessimo solo del vino noi saremmo finiti. Siamo in Italia che è terra di contaminazione tra le arti. E siamo a Pisa dove c’è un patrimonio da conoscere e da far conoscere”, ci sorride con affabile saggezza Paolo Giusti, mostrandoci i due vini di punta della sua azienda – I Giusti & Zanza a Fauglia: siamo a soli 12 km dal mare in questo viaggio tra i vigneti e le aziende della costa pisana –: il “Dulcamara”, nello stile dei SuperTuscan, a base di Cabernet Sauvignon e che sin dal nome è un omaggio alla musica e all’immortale protagonista dell’Elisir d’amore di Donizetti che spacciava il suo vino quale portentoso filtro amoroso. Ma è il secondo cru, un Syrah proveniente da un unico vigneto, a catturare la nostra attenzione: “Per Bruno è il vino che ho dedicato a mio padre – prosegue Giusti – e che ha l’etichetta disegnata dal grande architetto e designer Ettore Sottsass”.
Non siamo di certo nelle terre del Brunello o del Chianti Classico, nomi che da soli sono in grado di carpire l’attenzione del cliente internazionale e che insieme a poco altro (leggi Bolgheri e oggi anche l’altra Maremma) esauriscono la voce Toscana nel campo del vino persino tra i più ferrati.
“Per poter presentare il vino italiano in uno dei corsi più importanti al mondo mi hanno concesso solo otto ore di tempo e naturalmente della Toscana ho potuto parlare dei soliti noti. Vini come quelli pisani, per offrirsi efficacemente sul mercato internazionale, devono tirar fuori una propria identità che altro non è che lo stile con cui si presenta il vino”. La sua è la voce prestigiosa di Alessandro Torcoli, direttore ed editore della rivista Civiltà del Bere, riflessione che si è ascoltata durante il convegno organizzato dalla Camera di Commercio di Pisa, con la regia di una professionista del settore quale Claudia Marinelli di DarWine&Food: una due giorni che ha cercato di fare il punto – con Terre di Pisa, Terre del vino 2019, questo il nome della manifestazione – sullo stato dell’arte di un comparto, quello dei vini del territorio pisano, in grande effervescenza, i cui produttori sono entrati in contatto con la stampa specializzata e il pubblico curioso dei “wine lovers”.
“È vero: c’è tantissimo vino sui mercati ma c’è sempre spazio per qualità e novità – riprende il discorso Michele Shah, in Italia da più di trent’anni quale critica di vini nonché consulente di marketing del settore –. I nuovi mercati diventano velocemente maturi, basti pensare al ruolo dei social network. Si viaggia molto. Il turismo è in crescita e ovviamente l’appeal della Toscana fa la differenza: qui si cerca la classicità, la storia, la tradizione. E il millennial è un consumatore prezioso: magari meno leale rispetto a quello di un’altra fascia d’età, ma più curioso e che va alla ricerca di vini territoriali, vitigni autoctoni. A un vino chiede freschezza, autenticità, piacevolezza, eleganza, una bassa gradazione alcolica, un ottimo rapporto qualità-prezzo e manifesta sempre più attenzione per i vini biologici”.
Il bel casale immerso nel verde della Badia di Morrona (una proprietà, appartenenete alla famiglia Gaslini Alberti, di oltre 600 ettari di terreno, di cui 110 vitati), sorge in una delle zone più vocate alla produzione di vino, Terricciola: da qui ci dirigiamo alla scoperta di alcuni caratteri distintivi dei vini pisani quali si presenteranno a stretto contatto con il suo fascinoso territorio. E lo facciamo partendo da un’altra grande tenuta agricola, Torre a Cenaia, che sorge nel comune di Crespina Lorenzana, in val Tora, ai piedi delle colline pisane e la cui estensione raggiunge i 500 ettari (di cui 33 vitati). La forza dell’azienda, che è anche una riserva di caccia, risiede nella sua offerta quantomai differenziata. La famiglia Terzi Coppini, imprenditori lombardi, ne è oggi titolare e si avvale della consulenza di uno dei nomi più prestigiosi dell’enologia mondiale, Graziana Grassini, conosciuta anche come Lady Sassicaia. E l’incontro avviene con l’enologo originario dello Sri Lanka, Roshan Abenaim. Il Torre del Vajo 2015 (Sangiovese, Cabernet Sauvignon e piccole percentuali di Syrah) è un rosso toscano che spicca per la bella sapidità e per i tannini non troppo aggressivi. Una decina le etichette dell’azienda, ma l’offerta è ampia e si allarga spaziando anche alla parte ristorativa (l’Osteria, ma anche il pub e la pizzeria) e al Birrificio Agricolo J63 il cui punto di forza sta nell’impiego delle materie prime (come l’orzo) a chilometro zero.
L’incontro con Gianni Moscardini, che è consulente agronomico di importanti aziende come la Tenuta Argentiera e Caccia al Piano, avviene però nella sua azienda, Sator a Pomaia, a 40 km a sud ovest di Pisa, all’interno del comprensorio della doc Montescudaio: “Io ascolto il terreno – ci dice – ma non mi interessano i primi 40 cm, voglio che le radici vadano giù in profondità a cercare la vera terra. Qui abbiamo terreni formati da origine alluvionale, in parte vulcanica, in parte argilla”. Moscardini sorprende anche i giornalisti più esperti dicendo: “Volevo fare un bianco da invecchiamento e ho piantato il Fiano. Voglio vini eleganti, voglio sentire il frutto, il profumo”. La freschezza la cogliamo dal suo rosato, un 100% ciliegiolo, mentre la sapidità spicca nell’Opera Undici, un Montescudaio ottenuto da uve Sangiovese, Teroldego e Ciliegiolo di grande espressività.
Dai quasi 7 ettari di vigneti dell’Azienda Pagani De Marchi, che sorge nel comune di Casale Marittimo, ormai prossimi tanto al mare che alla provincia di Livorno, conosciamo i 5 vini dell’azienda le cui etichette riproducono le statue etrusche che testimoniano il profondo legame di qui con l’antica civiltà: la prima spicca sul “Principe Guerriero”, un sangiovese in purezza. “I nostri sono vini molto concentrati, potenti, alcolici, ma con acidità vive – ci spiegano in questa azienda che è di proprietà di una famiglia svizzera e il cui enologo è Attilio Pagli –. Queste sono zone siccitose e calde, la cui freschezza – l’acidità – ci deriva dalla vicinanza del mare”.
L’arrivederci ci vien dato con il “Casalvecchio in anfora” 2016 la cui vinificazione avviene appunto in anfora di terracotta: “Dopo una lunghissima macerazione, il vino ottenuto da uve cabernet sauvignon sosta in anfora e non viene filtrato prima dell’imbottigliamento. L’anfora è una tecnica nuova, ma difatto è ancestrale, utilizzata com’era proprio dai nostri antenati, gli etruschi”.
Vi è insomma un territorio assai ricco, complesso che affonda le radici nella storia, ma che oggi, sui mercati, intende proiettarsi nel campionato che conta. E il mezzo migliore per riuscirci resta allora il prezioso consiglio che Eloisa Cristiani, della Scuola Superiore Sant’Anna, dà al termine del convegno Dalla vigna alla tavola: “La promozione di un intero territorio non può che essere un gioco di squadra”.
Giovanni Caldara