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Viaggio nel mondo del teatro – Le ombre

- Cultura, Interviste
27 Febbraio 2020

Guido Martinelli

In questa tappa del viaggio della nostra testata nel mondo del teatro pisano è d’obbligo prolungare la fermata presso il Cinema Teatro Nuovo di Piazza della Stazione, gestito dal Dopolavoro Ferroviario guidato da Enzo Scanniffio che, dal punto di vista teatrale, è guidato da Carlo Scorrano: la novità cittadina più interessante e viva degli ultimi anni. In mezzo alle numerose iniziative di varia natura e portata organizzate e gli spettacoli musicali e teatrali di alto spessore messi in scena, in queste ultime settimane è iniziata, nei locali del Dopolavoro, anche una serie di attività di formazione teatrale per insegnanti. Una di queste è stato un corso di dodici ore, rivolto a docenti di scuole di ogni ordine e grado ed operatori sociali, sul teatro delle ombre tenuto da un’autorità nazionale in materia che da alcuni anni abita nella nostra città: Mariano Dolci. Che non potevo certo farmi scappare. Eccolo quindi di fronte a me. Innanzitutto lo invito a presentarsi.

Chi è Mariano Dolci?
È un burattinaio prestato alla pedagogia. Nasco come figlio di emigrati antifascisti che scappavano dall’Italia. Infatti sono nato a Belgrado, nella ex Jugoslavia, il 31 Agosto del 1937 e seguendo le vicissitudini della famiglia ho frequentato le scuole elementari in Francia dove dovevo parlare solo francese per non farmi riconoscere dai nazisti occupanti e quindi mi è rimasta la r francese. Quando è finito il Fascismo siamo ritornati nel nostro paese dove ho seguito gli studi universitari a Roma. Mi sono laureato alla Facoltà di Scienze Naturali e successivamente ho insegnato Scienze Matematiche nelle scuole medie per cinque-sei anni. Già in quel periodo, nel pomeriggio e alla sera, aiutavo una compagnia di burattinai che erano quelli che avevano un po’ riformato il genere. Parlo della compagnia di Otello Sarzi che metteva in scena cose molto impegnate per adulti. Abbiamo rappresentato opere di Majakovskij e Brecht, ma la compagnia campava sugli spettacoli che si facevano nelle scuole per l’antico pregiudizio per cui i burattini sono per bambini. Ci sono stati infatti anni in cui, a parte il lavoro per i bambini, la compagnia realizzava un solo spettacolo l’anno per adulti. Così ho pensato di dare più importanza a quest’attività per i più piccoli e abbiamo realizzato due tournée fortunate nel 1968-69 a Reggio Emilia dove era già iniziato quello straordinario movimento delle scuole che è poi diventato celebre in tutto il mondo. Istallarono anche una mostra denominata “Reggio Approach” che ha girato anche in Australia e negli Stati Uniti.

Rammento che le attività e l’organizzazione della scuola d’infanzia “Diana” le venivano a studiare dagli Stati Uniti.
Era una cosa un po’ ingiusta perché c’erano una ventina di scuole d’infanzia dello stesso livello però la scuola “Diana” venne conosciuta per prima da alcuni svedesi e divenne “La scuola” per eccellenza. Tornando alle tournée ripeto che andarono bene e li a Reggio mi sorprese non tanto gli applausi dei bambini quanto l’interesse degli insegnanti che alla fine degli spettacoli si attardavano a porre domande anche tecniche. L’interesse crebbe a tal punto che ci chiamarono per organizzare un corso per tutti gli insegnanti di Reggio Emilia e di Modena. In quell’occasione ho capito, per dirla col direttore Loris Malaguzzi, che “il bambino può parlare cento lingue ma noi gliene rubiamo novantanove”. Cioè quelle che sono considerate lingue o meglio codici artistici come la pittura, la scultura, la danza, la musica non sono considerati linguaggi mentre il bambino, quando è piccolo, ha la tendenza ad esprimersi con tutti i linguaggi possibili e naturalmente privilegia il teatro dato che i bambini fanno finta continuamente. Allora, dopo il corso che è stato molto apprezzato, mi hanno chiesto di rimanere a Reggio e nel 1973 mi hanno assunto al comune di Reggio dove sono stato il primo e unico burattinaio municipale in Italia. Dovevo timbrare il cartellino, fare le mie trentasei ore settimanali di lavoro di cui trentatre frontali coi bambini. E cosi per trent’anni, finché non sono andato in pensione, ho svolto il ruolo di burattinaio municipale. L’obiettivo della mia attività non era di portare i bambini di 3-4 anni a fare i loro spettacoli ma quello di far giocare i bambini coi burattini, di trasmettere loro questa consegna perché parlassero tra di loro come quando diamo loro la carta e i colori per farli disegnare. Non perché realizzino disegni da appendere al muro ma perché lo scarabocchio per il bambino è strutturante. Io volevo che i burattini fossero considerati allo stesso modo delle matite: un linguaggio adatto non per realizzare spettacoli che intenerissero i loro genitori, ma perché giocando coi burattini e col linguaggio si trasmettessero una quantità di informazioni che altrimenti non passerebbero tra di loro col linguaggio razionale come facciamo noi adulti.

Poi cos’è accaduto?
Fu creato un grande laboratorio di burattini a disposizione di tutte le scuole d’infanzia di Reggio, che poi ha servito anche gli asili nido e le scuole elementari. Nel contempo, nel pomeriggio o alla sera, svolgevo attività analoga all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Reggio dove alcuni medici pensavano che si potessero utilizzare i burattini in psicoterapia. Ogni paziente costruiva il suo burattino e poi con vari stimoli cercavamo di far parlare i pazienti tra di loro usando i loro alter ego. Mi ha interessato sempre di più dell’aspetto artistico cosa dice e cosa prova una persona quando muove un burattino. Risulta chiaro anche dalla storia di secoli che il burattino dice cose in più di quello che si vorrebbero dire, ti prende la mano e ti fa scappare cose che altrimenti non diresti. E questo, naturalmente, nei regimi autoritari non è ben visto, c’erano censure costanti e persino paesi dove i burattini potevano entrare solo durante il carnevale. Anche Otello Sarzi, con cui ho lavorato tanti anni che è di Reggio Emilia ed è stato con i fratelli Cervi, mi raccontava dei periodi passati in guardina al tempo del fascismo perché il suo burattino gli prendeva la mano e quando lui vedeva che il pubblico rideva il suo personaggio diceva cose che avrebbe dovuto tacere e quindi finiva in guardina per accertamenti. Le democrazie non temono i burattini al contrario dei regimi autoritari.

Puoi spiegare meglio?
Per esempio, in uno spettacolo la maschera principale Fagiolino, che dovrebbe essere quello simpatico, il didietro lo chiamava il concetto e diceva “Ti prendo a calci nel concetto”, “Mi stavo raffreddando il concetto” e via discorrendo, finché qualcuno del pubblico non gli diceva: ”Fagiolino, ma perché lo chiami concetto?”. E lui rispondeva: “Dal celebre discorso di Sua Eccellenza Mussolini il Fascismo è ormai entrato nel concetto degli italiani”. Mi ripeteva sempre che lui non aveva preventivato di farla ma il burattino si sdoppiava con lui e diceva cose che da solo non avrebbe mai detto. Potrei citarne tante altre. Certamente questo aspetto del burattino è più importante in terapia e in pedagogia perché influenza la progettazione cosciente

È uno strumento che certamente libera la creatività. Veniamo al teatro delle Ombre. Parliamone.
Quando stavo con la compagnia Sarzi a fare il professionista mi interessavo soprattutto di strumenti che utilizzava lui: burattini a guanto. Entrato in una dimensione pedagogica con il mio ruolo di burattinaio istituzionale sono entrato nell’ottica di trovare tutti gli strumenti per stimolare i bambini: i pupi a stecca, i burattini a mano vera e cosi via, finché un giorno non sono inciampato nelle ombre perché ho visto degli spettacoli di ombre, che da più di cent’anni non si facevano in Europa, da parte di due compagnie francesi. così l’ ho proposto alle maestre di Reggio Emilia e la proposta ha avuto grande successo, soprattutto nell’asilo nido.

Sbaglio o tu sei stato il primo ad aver introdotto il teatro delle ombre in Italia come ho letto da qualche parte?
Non esageriamo. D’estate, quando non lavoravo al Comune, lavoravo con la compagnia teatrale “Gioco Vita” di Piacenza. Molto conosciuta e valida. Loro sono stati i primi. Il primo spettacolo di ombre in Italia lo abbiamo fatto insieme. Io ho fatto le sagome su disegni di Emanuele Luzzati e poi ho ideato la baracca. La compagnia del “Gioco Vita” ha continuato a migliorare sempre.

Il teatro delle ombre viene da lontano, vero?
Alcuni antropologi dicono che sia stato il primo spettacolo quando nella caverna qualcuno muoveva la sua ombra per mostrare delle cose. Ci siamo accorti che corrisponde a un centro molto profondo dei bambini, tutti loro accettano di giocare con le ombre.. Prova quando cammini con un bambino a pestare la sua ombra vedrai che lui va subito a pestare la tua e si può cominciare un rapporto giocoso.

Dal punto di vista tecnico è difficile o facile il teatro delle ombre?
È possibile fare spettacoli con le mani, sono le cosiddette ombre cinesi che poi non sono affatto cinesi.

Perché, allora, le chiamano così?
Perché si sono diffuse nel Settecento quando la grand mode di tutto quello che era un po’ strano veniva dalla Cina. Le vere ombre cinesi sono quelle cose ritagliate di carta che i cinesi mettono sopra gli specchi, le lampade, per fare delle ombre. Ci sono grandi tradizioni di questa tecnica in tutta l’Asia, a Giava, in Indonesia. In Cina, nel Vietnam, dappertutto in quella zona. Aveva inizialmente un carattere sacro che sta perdendo poco a poco per diventare una tecnica profana. In Cina lavorano moltissime compagnie dentro le scuole a fare spettacoli per bambini che ormai di sacro non hanno più niente anche se si nota ancora l’ascendenza religiosa. In India, per esempio, anche se fanno molti spettacoli profani la lampada va accesa in un certo tempio. In Turchia, dove fanno certi spettacoli di ombre, ringraziano il sultano che ha cominciato la tradizione. Le ombre si prestano molto bene sia per le trasformazioni, le metamorfosi sia per la satira.

Qual è l’importanza di questa tecnica con i ragazzi di tutte le età?
Non sono miracolose le ombre. Se tutta la scuola non gira in un certo modo non puoi ottenere risultati miracolosi. Se, però, si ha molto rispetto per il bambino e una particolare vocazione all’ascolto dei bambini, c’interessa quello che dicono, se si sa che i bambini si fanno le proprie conoscenze da soli in gruppo, allora gli si consegna un linguaggio che per lui è più congeniale rispetto al parlare e allo scrivere. Io sono convinto che i bambini che nella scuola elementare fanno ombre, burattini, danza, travestimenti, teatro e musica, impareranno a leggere e scrivere prima degli altri. Sono contro quegli insegnanti avversi a queste attività perché affermano di avere un programma da seguire. C’è questa frase bellissima di Rousseau, il primo che ha incominciato la pedagogia più o meno scientifica, che dice: “Bisogna perdere tempo per guadagnare tempo”. Se lasciamo crogiolare i bambini in questo gusto della comunicazione vedremo che poi saranno più interessati alla lettura e alla scrittura. Non so se è un utopia ma ci credo.

Allora “burattiniamo finché si può’”.
Sì, fa bene alla salute.

A tutte le età?
Si, posso farti un esempio? In un ospedale psichiatrico dove tutti avevano costruito nei loro reparti il loro burattino, io lanciavo degli stimoli per metterne due a dibattere tra di loro, a contrasto. Ci fu un periodo in cui, non so perché, ma anche i lungodegenti erano tutti molto interessati al divorzio, che in quel periodo era soggetto al referendum che lo avrebbe reso possibile, anche se il problema non li riguardava direttamente non essendo sposati e reclusi.

Erano gli anni settanta del novecento, vero?
Certo, in un reparto realizzammo delle scenette in cui un burattino era “per” e un altro era “contro”. E risultarono cosi divertenti che io li convinsi a riproporle in un altro reparto dove facemmo vedere, con i burattini, i nostri dibattiti e poi chiedemmo agli spettatori chi dei due fosse stato più convincente spingendoli a subentrare, prendere in mano il burattino e provare a sostenere o l’una o l’altra delle due parti. La cosa più divertente è stata che poi sono intervenuti gli infermieri, i dottori e persino un monaco che operava lì per difendere la posizione divorzista. Ho così compreso che difendere una tesi che non è la propria è divertente e molto strutturante. Io credo che alla fine ognuno sia rimasto della propria idea, però ognuno guardava gli altri in un altro modo perché aveva compreso le loro motivazioni.

Per concludere, queste tue esperienze di tanti anni fa sono state senza dubbio fondamentali ma ti chiedo, ai nostri giorni, nel mondo tecnologico attuale in cosa consiste l’importanza del burattino, del teatro d’ombre?
Questi linguaggi restano importanti e dovrebbero essere utilizzati ancor di più. Mi spiego meglio con un esempio. Negli anni novanta negli Usa c’era una setta composta da tecnici di computer, e tutti questi, una quarantina, dopo aver avvelenato i bambini si sono ricoperti con un drappo fucsia e si sono suicidati. Allora, se una comunità di persone istruite e intelligenti arriva a compiere un simile gesto viene da pensare. La mia interpretazione è che probabilmente questo gruppo viveva in esclusiva comunità tra di loro, chiusi verso gli altri. E quindi io penso che l’uomo non può essere solo razionale perché si suicida subito, e non può essere neppure solo immaginativo e fantastico perché finisce in manicomio. È interessante, invece, la relazione continua tra razionalità e fantasia, è bene sapere cos’è l’immaginazione e sfruttarla per conoscere bene la realtà e cosi via. Allora questa ginnastica dovrebbe iniziare fin dal nido e dalla scuola dell’infanzia con tanti giochi e in particolare col teatro e il burattino. Una cosa è la realtà, un’altra è l’immaginazione e il gioco, e quel che è importante è avere sempre più relazioni tra di loro. C’è una parola francese che non esiste in italiano che è l’entre deux, tra i due, che è la cosa più importante. Ripeto, quindi, che per i bambini più piccoli, a mio parere, bisogna potenziare tutti i linguaggi. Reprimere i linguaggi espressivi in senso lato significa reprimere la comunicazione, la voglia di espressione.

A me non resta che una frase definitiva per il momento: “Grazie, Mariano”.

E non finisce qui. Torneremo qui, sul luogo del delitto, per capire come e cosa hanno prodotto gli insegnamenti di Mariano Dolci nelle scuole in cui insegnano i docenti che hanno frequentato il suo corso. Di sicuro sicuramente. Alla prossima bimbi per l’ennesima tappa del nostro viaggio teatrale in terra pisana.

 

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