– Renato Sacchelli –
Nel mese di agosto 1944 percorsi frequentemente le vie deserte, assolate e silenziose di Seravezza. Faceva impressione non vedere nessuno lungo i muretti del fiume, sotto i platani dirimpetto all’ospedale, di solito gremiti di persone. Dalla cave non giungevano più i fragori dei sassi rotolanti lungo i ravaneti né quelli provocati dall’esplosione delle mine. Seravezza appariva senza vita, un paese morto con le porte e le finestre delle case chiuse. Soltanto l’acqua dei fiumi, limpida come non mai, continuava a scorrere verso il mare. In quel mese a Seravezza arrivò un gruppo di alti ufficiali tedeschi, uno dei quali era il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante delle truppe germaniche in Italia, il cui volto ebbi modo di riconoscere anni dopo vedendo le sue foto su alcune riviste.
Data l’importanza strategica che aveva assunto la zona, estremo limite a nordovest della famosa Linea Gotica, era normale che Kesselring volesse rendersi conto di persona dei luoghi dove le sue truppe combattevano, riuscendo a fermare per sette mesi l’avanzata degli Alleati. La visita del gruppo di alti ufficiali avvenne prima che venissero distrutti gli antichi rioni di Seravezza del Ponticello e della Fucina, ricchi di tesori quali erano la chiesa della Santissima Annunziata, tutta rivestita di marmo all’interno, con annessa la casa che dal 1518 al 1520 fu abitata da Michelangiolo Buonarroti, quando si recò, per volere di Papa X, sulle cave del Trambiserra per estrarre le colonne di marmo che gli servivano per la facciata del San Lorenzo di Firenze (opera che non fu mai realizzata) e per aprire sul Monte Altissimo le cave di marmo statuario che gli serviva per le sue opere. Tutto fu distrutto dai tedeschi: il campanile con il bellissimo orologio, la segheria del Salvatori, costruita nel 1926 in cemento armato. Anche i vicini paesi di Corvaia e di Ripa furono completamente rasi al suolo.
Vidi Kesselring e i suoi ufficiali quel giorno in cui stavo tornando al rifugio di Giustagnana, dopo essere stato nella mattinata nei pressi del Cardoso per fare macinare un sacchettino di granturco. Se in quel periodo di tempo era difficile procurarsi tale cereale, coloro che ne avevano la disponibilità, chiuso il molino del Bonci di Seravezza, incontravano molte difficoltà a trasformarlo in farina. Il molino dove mi recai quella mattina era ubicato sotto la strada, vicino al canale. Probabilmente era stato messo in funzione da poco tempo per fare fronte alle necessità del momento. L’attività veniva svolta in un piccolissimo locale con il tetto molto basso. Secondo l’impressione che riportai l’uomo che l’aveva attivato prima dello sfollamento doveva avere un laboratorio di marmo. Con l’esercizio improvvisato del molino poteva trattenersi un po’ di farina a titolo di compenso per la macinatura dei chicchi di granturco e di quant’altro gli veniva portato. Ricordo con quanta attenzione si muoveva intorno alla macina e come sfiorava il pollice sulle altre dita ricoperte di farina per accertarsi che fosse ben macinata. Un uomo in gamba. Non mi chiese nulla per questa macinatura, verosimilmente, a mia insaputa, trattenne per sé un po’ di farina.
Mi sentivo particolarmente contento quando iniziai il viaggio per tornare al rifugio con il mio sacchettino di farina sulle spalle. Mi sembrava di avere con me un tesoro. Sapere che a Giustagnana mi aspettavano per fare la polenta attenuava la mia fatica, ancora più forte dato che non toccavo cibo da diverse ore. Giunto a Seravezza, dopo aver attraversato Torcicoda, arrivai in fondo al Canaletto. Saranno state le sei pomeridiane. Ferma davanti all’ospedale, tra il muretto del fiume e il piccolo giardino che tuttora si trova lì davanti, c’era una camionetta scoperta tedesca con la parte anteriore rivolta verso il ponte della Passerella: a bordo tre o quattro ufficiali tedeschi. Dai loro distintivi, come constatai poco dopo, capii che erano di alto grado. Kesselring stava fuori dalla camionetta, con un piede sulla ruota posteriore sinistra. Indossava una divisa sahariana. Tutti avevano il capo chino su alcune carte topografiche spiegate sotto i loro occhi. Non avevano militari di scorta.
Quando sbucai in fondo al Canaletto volsero i loro sguardi allarmati su di me. Ebbi l’impressione che qualcuno di loro, temendo un’agguato, posasse la mano sulla pistola che portava nella fondina attaccata alla cintura. Lì per lì pensai di tornare indietro, ma poi ritenni più opportuno continuare ad andare avanti come se nulla fosse. Anche se avevo una paura tremenda. Proseguii il cammino stringendo forte nelle mani il mio sacchetto di farina, come se fosse uno scudo, Passai vicinissimo agli ufficiali tedeschi senza rivolgere alcun cenno di saluto. Dal timore che avvertivo non ebbi neppure la forza per guardarli in faccia. Li sentii parlare senza che capissi quello che dicevano. A passo svelto, in un susseguirsi di emozioni forti, mi allontanai velocemente.
Giunto sopra Riomagno ero stremato. Mi distesi per terra in una piana e riposai a lungo. Erano già calate le prime ombre della sera quando ripresi l’arrampicata. Prima di arrivare a Giustagnana, dalla cima del monte Canala o del Castellaccio furono sparate diverse raffiche di mitragliatrice. Era visibile la traiettoria dei proiettili luminosi che raggiunsero proprio la zona che stavo percorrendo, fortunatamente senza colpirmi.
Poco tempo dopo che vidi Kesselring a Seravezza, iniziò la distruzione di una parte del centro abitato del paese, dal sottomonte, a partire da Riomagno, fino alla Fucina. Fu così deturpato dal grigiore delle macerie il paesaggio di Seravezza e dintorni, un’autentica tavolozza, forse il più bello della Versilia, coi suoi monti a ridosso del maestoso Altissimo pieni di verde, dai toni intensi e nello stesso tempo più sfumati, e con le cave ricche di marmi dai colori diversi, un vero splendore. Nell’agosto del 1944, nell’oltretomba, credo abbia pianto anche Giuseppe Viner, che seppe ben dipingere e far brillare con colori puri, il paesaggio della sua Seravezza.
Renato Sacchelli