Nel 2018 aveva patteggiato una pena a tre anni e otto mesi per lo stesso tipo di reato. Ma evidentemente non gli era bastato e aveva continuato a prestare soldi a usura. L’imprenditore calabrese Francesco Cardone, 51 anni, residente a Poggio a Caiano (Prato), ha subito il sequestro di beni per un valore cospicuo, circa 2,5 milioni di euro. Le indagini erano partite da una denuncia presentata da un’imprenditrice fiorentina finita da qualche anno nella rete di un usuraio. Gli inquirenti si sono così imbattuti in altri imprenditori vittime del medesimo reato da parte del Cardone, che aveva loro accordato prestiti a tassi superiori al 300% su base annua. In un caso per il ristoro del debito aveva preteso un’abitazione: la planimetria catastale gli è stata trovata in in casa durante la perquisizione.
Sei titolari di bar, ristoranti e negozi del capoluogo toscano e dell’hinterland fiorentino, in grave crisi finanziaria, avevano chiesto un prestito all’imprenditore calabrese, pattuendo la restituzione con una scadenza brevissima, da uno e tre mesi. Gli inquirenti hanno ricostruito minuziosamente i vari movimenti dell’usuraio, compresi gli incontri nel parco delle Cascine di Firenze con una delle vittime.
Il blitz è stato condotto dai carabinieri del Reparto operativo-Nucleo investigativo e dagli specialisti del Gico della Guardia di Finanza nell’aggressione dei proventi illeciti, che hanno approfondito ogni dettaglio dell’ingente patrimonio accumulato dal condannato o, comunque, a lui riconducibile. Nel complesso, sono stati sequestrati sedici rapporti finanziari, due autoveicoli, quote sociali e tre fabbricati, per un valore totale di circa due milioni e mezzo di euro.
La legge in base all’art. 240-bis del codice penale prevede la confisca dei beni di cui i condannati per determinati gravi reati, tra i quali l’usura, non possano giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risultino essere titolari o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato. In pratica sii presume che le spese che superano i redditi dichiarati siano finanziate con i proventi dei reati per i quali il soggetto è stato condannato. Uno strumento, questo, che permette di aggredire tutto il patrimonio a disposizione del nucleo familiare o di eventuali prestanome.
Guardia di Finanza e carabinieri hanno svolto accertamenti patrimoniali nei confronti di 9 soggetti (5 persone fisiche e 4 persone giuridiche). Un’approfondita analisi di come e quando sono stati acquistati beni mobili e immobili dal nucleo familiare del condannato o da società e soggetti a lui riconducibili, i cosiddetti prestanome. Sono stati ricostruiti i redditi del nucleo familiare del soggetto per gli anni in cui ha effettuato l’attività illecita e confrontati con le spese documentate e quelle presumibili per le normali attività familiari, dimostrando che, nei sette anni presi in esame, il nucleo familiare del condannato aveva acquisito beni per alcune centinaia di migliaia di euro, in eccesso rispetto ai redditi dichiarati. Da qui la presunzione che tutto il patrimonio fosse inquinato dalla provenienza illecita.