72 views 6 min 1 Commento

Se vincere non è l’unica cosa che conta: Sarri, il provinciale che ha scalato un sogno impossibile

- Sport
8 Agosto 2020

Paolo Lazzari

Esattamente ventuno anni fa – era il giugno 1999 – Maurizio Sarri ispirava forte, si faceva coraggio e prendeva una decisione che avrebbe cambiato per sempre il corso della sua esistenza. “Lascio il lavoro, di qui in avanti farò soltanto l’allenatore”, confessava ai colleghi ed agli amici, increduli. Un crocchio di persone si raduna intorno a lui, per convincerlo a cambiare idea: come fai a mollare un posto sicuro e prestigioso alla Banca Toscana? Il Tegoleto non è certo il Real Madrid e le categorie minori del calcio italiano assomigliano molto ad un groviglio capace di innalzarti su un altare cosparso di gemme un giorno per poi triturarti e sputarti via quello successivo.

La sentenza però è stata emessa: Sarri lascia l’impiego che lo ha portato a lavorare anche a Londra, in Germania, in Svizzera e Lussemburgo, per accendere un sogno a tempo pieno. E pazienza per la categoria. Il calcio, del resto, è sempre stata una questione genetica per lui: figlio di un operaio toscano, cresciuto vicino a Bergamo e successivamente a Figline Valdarno, Maurizio è stato giocatore prima che mister.

La sua carriera in panchina inizia nel 1990: mentre l’Italia vive le sue notti magiche e sogna la coppa del mondo, lui firma per lo Stia, seconda categoria. Ci resterà soltanto un anno, ma quando lascia non fa salti in avanti: la Faellese, la squadra successiva, abita ancora nelle paludi del calcio italiano. Lui però non lascia che il contesto lo deprima e dopo tre stagioni infila un doppio salto di categoria, finendo in Promozione. Successivamente assume la guida tecnica del Cavriglia e dell’Antella, conducendo entrambe all’Eccellenza. Attenzione: non dimenticate queste piccole deflagrazioni di gloria, perché lui non lo farà. “Quando mi dicono che non ho vinto niente in carriera mi arrabbio (eufemismo, ndr), perché le promozioni contano eccome”, dirà sulla panchina del Chelsea, nel ventre di Stamford Bridge, subito dopo aver sollevato l’Europa League.

Per indovinare il vero giorno fortunato della sua vita, tuttavia, bisogna riavvolgere il nastro e tornare al 2000, quando lo chiama la Sansovino. Sarri non può ancora saperlo, ma da qui in avanti le cose cambieranno radicalmente. In meglio. Difesa a quattro alta, a zona, giropalla ossessivo e verticalizzazioni dirompenti: il suo credo tattico è un postulato granitico che si comincia ad intravedere da qui. Maurizio infila un’impressionante sequela di risultati positivi nelle categorie minori, fino ad attirare l’attenzione dell’Empoli. In mezzo c’era stato anche un avvicendamento che oggi fa ancora sorridere: ad Arezzo sostituisce l’esonerato Antonio Conte e pareggia 2-2 contro la Juventus di Didier Deschamps precipitata in B dopo lo squassante terremoto di Calciopoli. Al Castellani si intravedono sprazzi di calcio totale: maniacale, ossessivo nella gestione degli allenamenti e delle situazioni tattiche, Sarri riporta gli azzurri in A al secondo tentativo (l’anno prima perde ai playoff contro il Livorno, ndr) e li salva facilmente nella stagione successiva.

Quello che più impressiona, oltre i risultati, è tuttavia la fluidità con cui un club di provincia riesce a macinare gioco, irridendo i colossi del campionato. Particolari che si insinuano nella mente delle persone, fino a fare la differenza: De Laurentiis ne viene stregato e lo ingaggia, nel 2015. Con i partenopei Sarri sfiorerà a ripetizione la vittoria del campionato e farà stabilire il nuovo record di marcature in Serie A a Gonzalo Higuain (36). Anche il bel gioco prosegue ininterrotto, ma tutto questo non basta.

Sarri torna così a Londra, ma stavolta non per stare dietro la scrivania di una filiale. Il Chelsea di Abramovich lo ingaggia per scrivere una pagina nuova, ma dopo un solo anno lo rispedisce al mittente, malgrado l’Europa League conquistata in finale ai danni dell’Arsenal. Schietto in conferenza stampa ed integralista sul campo, nella City fa presto ad attirarsi le antipatie dei supporters dei Blues, che scherniscono il suo gioco additandolo come Sarriball. Uno scenario che si ripete oggi, con l’esonero – dopo un solo anno – da parte della Juventus. “Vincere è l’unica cosa che conta”: il motto inciso nell’anima del club bianconero stavolta merita di essere rivisto. Perché Sarri ha comunque portato a casa il nono scudetto di fila e non era banale. Tuttavia, a Torino, non è mai riuscito a stappare il bel gioco che era sempre stato un tratto connaturato della sua visione del calcio. Ha perso supercoppa e coppa Italia e, soprattutto, è uscito inopinatamente dalla Champions contro un avversario più che abbordabile.

Adesso, per lui, si aprono nuovi scenari probabilmente più consoni alla sua figura, mai totalmente incastonata dentro le maglie strette dello stile Juve. “Ho scelto come unico mestiere quello che avrei fatto gratis”, rivela quel giorno di oltre vent’anni fa ai suoi colleghi, attoniti. Oggi Sarri è di nuovo con la valigia in mano, recluso nell’ennesimo angolo transitorio della sua esistenza. Non c’è dubbio però che la sua totalizzante storia d’amore con il calcio proseguirà, certo condita da una feroce voglia di rivalsa: quella di un underdog di provincia che, a forza di crederci, ha scalato un sogno impossibile.

Condividi la notizia:
1 Commento
    carlo

    …”underdog? Meno male che siamo in Toscana…Dante Alighieri si rivolterà nella tomba! Ammazza che succubanza agli inutili fonemi angloamericani…

Lascia un commento