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Da Prato ad Atlanta: il volteggio infinito di Juri Chechi

- Sport
4 Settembre 2020

Paolo Lazzari

Quando il fascio di luce pompato in salotto dalla vecchia tv si esaurisce, Leo e Rosella sanno esattamente cosa faranno: lo chiameranno Juri, in onore al grande astronauta russo Juri Gagarin. Quello che invece non possono davvero sapere è che, in grembo, è custodito un prodigio. Il più grande ginnasta della storia in Italia. Come fai a immaginarlo, del resto? A Prato la vita è sempre stata un piatto tiepido, la provincia gira verso il basso la manopola al rumore dei sogni e, di certo, quello non è nemmeno lo sport nazionale.

Aggiungici che da bambino Juri è minuto, gracile ed insicuro: non potrà mai diventare un grande atleta. I genitori scuotono la testa, i coach di turno anche. Lui intanto sogna forte altri sport. Vorrebbe diventare un ciclista, forse perché ha già intuito come la Toscana sia la culla prediletta delle due ruote. Oppure potrebbe provare con la boxe: più difficile, certo, ma se riesci a metter su massa con quel fisico tarchiato poi diventa tutto possibile. Invece no: la vita ha in serbo per lui un altro mazzo di carte. Una porta scorrevole che affaccia su un universo impensato. Il piccolo Juri ama emulare la sorella maggiore, al punto che un giorno decide di seguirla in palestra: l’edificio è quello della “Ginnastica Etruria” di Prato. Scolpite bene in mente questo momento, perché è qui che la storia cambia. Qui che gli occhi di Juri sgranano, suggerendo cosa fare all’intuito. La scintilla è già un fuoco che divampa: Juri ama la palestra e la palestra si coccola Juri.

Leggero sbalzo temporale: scuole elementari, classe quarta, zaffate di calore che penetrano dalle finestre in una morbida mattinata di fine primavera. La telecamera percorre il lungo corridoio, fino a stringere sul suo banco: l’alunno sta scrivendo un tema di italiano. La maestra contempla il lavoro compiaciuta. Poi, una volta giunta a casa, va a correggere. Il titolo del tema è “Cosa farai da grande”. “Io vincerò le Olimpiadi“, scrive Juri. L’insegnante sorride: qualche anno dopo si sentirà un po’ stupida per quella risatina sommessa.

Si fa presto però a scriverlo su un foglio di carta. Realizzarlo è un po’ diverso. Chi disse che il talento non basta, da solo, aveva ragione da vendere. Dev’essere accompagnato da una dedizione feroce per centrare il bersaglio. Per Juri significa lasciare Prato, la famiglia e gli amici, all’età di 15 anni. La vita che lo attende ha i contorni improbabili di Varese, la città che contiene un centro di formazione per eccellenza. Gli anelli chiedono indietro un tributo di sudore e lacrime: il ragazzo sfrega le mani e volteggia, cade, volteggia. Ancora e ancora. Anni di preparazione infiniti per sessanta secondi di esercizio da compiere con un margine di errore che si approssima allo zero periodico. La crudeltà ghignante e la bellezza austera dello sport.

Con pazienza e perseveranza Juri sale su quella pedana. Atlanta 1996, i fari del mondo riversati su di te, tutto quel lavoro dietro le quinte che adesso aspetta di essere messo alla prova: a 27 anni è il momento perfetto. Si aggancia agli anelli e non scende più: il movimento è cristallino, ipnotico, elegante, privo di sbavature. Le tv sono di nuovo sintonizzate in tutta Italia, ma stavolta il protagonista non è un astronauta russo. No. Scende in modo perfetto. Applausi che gli circondano il cuore. Occhi al cielo, medaglia d’oro che cade solenne sul petto. Tenere fede al patto stipulato con sé stessi da bambini: ci riescono solo i migliori.

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