– Paolo Lazzari –
Alzi la mano chi si ricorda nitidamente cosa stava facendo dieci anni fa, di questi tempi. Beh, è probabile che l’umanità se la passasse quasi certamente meglio, ma non è questo il punto. Dieci anni sono un sacco di tempo. Le ore ti scorrono tra le dita che nemmeno te ne accorgi. I giorni ti passano davanti mentre cerchi invano di rincorrerli, per esserne protagonista. In dieci anni puoi trovare un nuovo lavoro, perdere quello che pensavi fosse per la vita, cambiare partner o sposarti, apporre una bandierina in ogni continente, deprimerti o realizzarti. Se sei un tifoso della Fiorentina, poi, devi sapere che questo prolungato giro di giostra risulta tutto amplificato. Scomodando e rimodellando Nick Hornby “ad un certo punto non capisci più se la vita è una merda perché la viola va male o viceversa”.
Ecco, ripartiamo da qui. Perché il ritorno di Prandelli nella città del Giglio ha a che fare proprio con questo. Con quella che gli iberici chiamerebbero l’alma identitaria di un popolo. Ridare a Cesare la Fiorentina, dieci anni dopo. Stavolta la frase non può stridere se la pronunci. Anzi, collima perfettamente con i bordi di un sentimento antico come l’amore provato per l’uomo e per l’allenatore. Difficile infatti indovinare un altro condottiero idolatrato a tal punto da identificarsi con lo spirito di Firenze. Sì: probabilmente è arrugginito. I molteplici giri a vuoto degli ultimi anni non sono rassicuranti. Eppure vale la pena provare.
La storia, del resto, racconta che lui è il tecnico più vincente del club per numero di partite. Nel suo quinquennio viola (dal 2005 al 2010) ha saputo ottenere risultati esaltanti. In quegli anni la Fiorentina è protagonista in campionato e, in fondo agli occhi ed al cuore, restano incise serate di Champions memorabili. Possiamo non ricordare esattamente cosa facevamo a distanza di anni, ma dimenticare la vittoria esterna sul campo del PSV è impossibile (Mutu, che show), così come non si può rimuovere il doppio successo sul Liverpool, al Franchi e ad Anfield. Prandelli poi sfiorerà anche la finale di coppa Uefa (la Fiorentina esce ai rigori contro i meno quotati Rangers Glasgow) e subirà un’ingiustizia clamorosa in Champions contro il Bayern Monaco. Nel frattempo uno dei suoi cannonieri principali, Luca Toni, metterà via la scarpa d’oro.
Quella squadra rappresentava un’alchimia rara. Quel modo sfrontato e coraggioso di interpretare le partite – la qualità che non veniva mai sacrificata sull’altare dell’agonismo esacerbato – era il timbro a fuoco e la filosofia di vita. Veder giocare la Fiorentina suggeriva gioia di vivere, racchiudeva la bellezza che uno cerca di scovare nella propria squadra, che poi diventa una propaggine della nostra vita, per sfuggire ai dilemmi quotidiani. Inoltre vincevi. Venivi rispettato e temuto in tutta Europa. Il nome di Firenze issato nel suo punto più alto. Certo, c’erano alcuni campioni che aiutavano ad estrarre un gruppo “normale” dalle possibili sabbie mobili della mediocrità: il fenomeno Mutu, quella saracinesca di Frey tra i pali, i fulmini di Toni, il violino di Gila, l’estro fragile di Jovetic e molto altro ancora. Il vero miracolo però lo nutriva quel signore in panchina: un uomo amato dal gruppo, prima ancora che un grande allenatore.
Difficile pensare che quell’epoca costellata di partite come zaffiri possa essere riesumata. Eppure Firenze oggi è (per la maggior parte) felice. Perché riabbraccia un amico. Perché finalmente i giocatori dovrebbero tornare ad occupare le loro posizioni naturali in campo: l’idea più probabile – anche se prematura – è quella di un 4-2-3-1 con Ribery e Callejon finalmente esterni veri, Castrovilli alle spalle della punta (proverà a scommettere su Vlahovic?) ed Amrabat chiamato a dirigere il traffico in mezzo, insieme a Pulgar o chi per lui.
Una parola, doverosa, anche su Iachini. A Beppe difficilmente si può rimproverare qualcosa. Arrivato a Firenze ha rimesso ordine inizialmente, per poi rimanere fedele a sé stesso: quel 3-5-2 immodificabile, anche a costo di snaturare gli interpreti, è il segno più evidente dei limiti giustificabili di un tecnico che, semplicemente, doveva fare il traghettatore. Verso di lui nessun rancore, anzi, un augurio di buona fortuna.
Nel frattempo Firenze si gode il ritorno del suo Cesare. Probabilmente non sarà come la prima volta ma, almeno per un po’, lasciate sognare i tifosi.
Foto: ilGiornale.it