– Paolo Lazzari –
Metti un toscano dal cuore granata: un’immagine pittoresca, che stralcia senza ritegno le convinzioni precostituite. Perché se nasci a Piombino l’Elba la puoi quasi stringere nel pugno e Livorno ti preme addosso. Il sangue che erompe nelle vene è certamente quello di un popolo che non ama gingillarsi con i giri di parole, ma le pulsazioni calcistiche, quelle vere, raccontano un amore chimico per il Toro. Il destino di Aldo Agroppi, del resto, è legato da un filo metallico inossidabile al club piemontese: dopo una breve partenza nelle giovanili del Livorno, nel 1961 passa proprio a quelle del Torino. Sul campo sta per srotolarsi il sipario di una carriera avvincente e luminosa, l’esatto contrario di quello che accadrà una volta seduto su una fredda panchina.
Aldo sfoggia da subito tonnellate di grinta, che gli valgono il singolare soprannome di “Cotenna“, immagine metafisica che serve a conferire il concetto di durezza alla mente. I piedi, pure, sono educati ed il pensiero corre lungo, corroborando una visione di gioco notevole. Il giovane Agroppi sa come cavarsela in entrambe le fasi a centrocampo e, ben presto, le sue prestazioni lo issano fino al debutto tra i professionisti, con la maglia della Ternana, in serie C. La scalata verso il monte Olimpo del calcio adesso si fa inevitabile. Dopo un passaggio in cadetteria, a Potenza, ecco che gli astri si ricongiungono: il Torino lo richiama e lo fa esordire in Serie A. Certo, quell’incipit di successo – un deciso 4 a 2 alla Samp – viene rigato dalla tragica scomparsa del compagno di squadra Gigi Meroni, da sempre suo idolo. Per lui è una di quelle botte che lasciano lividi interiori, di quelli che sanno sanguinare a distanza di anni. Agroppi rimane sotto la Mole per otto anni e, nel frattempo, si guadagna anche il sussulto della Nazionale guidata da Valcareggi. Quando le luci della giovinezza cominciano ad affievolirsi decide di concludere a Perugia una carriera calcistica di sicuro spessore.
L’avventura in panchina, al contrario, è crivellata di note agrodolci. Certo, l’inizio è di quelli che ti prendono in contropiede: Aldo torna in Toscana per assumere la guida del Pisa – quasi un delitto di lesa maestà per uno che è praticamente nato a Livorno – e conduce i nerazzurri ad una mitologica promozione in Serie A, nel 1982. Nella città della torre pendente Agroppi è già oggetto di culto, ma il fuoco che lo incendia da dentro spiffera prepotente all’orecchio, suggerendo nuove sfide. Rientra a Perugia, stavolta nelle vesti di mister, e per poco non riesce a replicare lo scherzetto della promozione, anche se perde soltanto una gara su trentotto. Nella stagione successiva casa ha la facciata viola ed un grande giglio che non attende altro che il momento di dischiudersi: Agroppi porta la Fiorentina in Europa, scodellando prestazioni convincenti che esplorano il palato raffinato del Franchi, puntando sempre più in alto. Qui però il buon vento che lo aveva sempre sospinto, d’un tratto, si ritrae. La buona sorte si accartoccia. Un fato avverso inizia scrupolosamente a chiedere che il conto venga rimesso in pari.
Aldo infila una serie di fallimenti che lo conducono sul bordo vertiginoso dello sfacelo: un mezzo disastro a Como ed il blackout ad Ascoli erodono la sua immagine. La spallata arriva con la surreale retrocessione della Fiorentina nel 1993. Un incredibile dissidio tra presidenza e tecnico porta all’harakiri interno: via Gigi Radice a metà campionato, da secondo in classifica. Dentro Aldo, inviso al Palazzo del calcio per le sue dichiarazioni sempre pungenti, pronte ad abitare sempre oltre le righe anguste del politically correct. Il risultato è sconcertante. La viola scende in B a dispetto di una rosa che annovera Batistuta, Effenberg, Brian Laudrup, Ciccio Baiano e molti altri ottimi prospetti. Una bordata di quelle che spezzano il fiato: Aldo si convince che la sua epoca in panchina si è dissipata ed abbandona il ruolo. La ferita è più profonda di quanto possa apparire e, zampillando avidamente, concepisce un nemico che non ti usa la cortesia della fuga, perché divora interiormente: la depressione.
Più tardi, da piombinese coriaceo, si riprenderà e tornerà a mettersi in luce nelle vesti di commentatore televisivo: la verve è quella del tipico briccone toscano, che non ha timore di piazzare i gomiti sul tavolo prima di sputare fuori la verità. Un infarto nel 2011, durante un acceso intervento alla radio, lo costringe al riposo. Di nuovo in trincea dopo l’ennesima dura prova, Agroppi continua a raccontare il calcio con la genuinità connaturata alle sue origini, infilando il Toro in qualsiasi intervento. Perché il sangue non lo decidi mica, ti sceglie lui: ed il suo rimarrà sempre intriso di granata.
Foto: Torinogranata.it (in alto).