Commenti e considerazioni su un mondo che ha perso la testa di un giornalista col cuore in Toscana e la testa da qualche parte tra Londra e il Texas. Se volete, chiamatemi Apolide / di Luca Bocci
Rinchiusi nei nostri comodi loculi tecnologici, ci eravamo illusi che il mondo fosse diventato tutto indici di contagio, polemiche su questo o quel pass, un’emergenza eterna che nessuno sa bene se e quando finirà. La storia, come al solito, se ne frega delle nostre ossessioni. Le immagini del caos in Afghanistan, causato dalla disastrosa exit strategy messa in atto dall’amministrazione Biden, hanno avuto l’effetto di uno schiaffone in faccia. Il mondo va avanti, seguendo logiche incomprensibili ai più. In momenti come questi, il ruolo dei giornalisti, indegne vestali della professione più bella del mondo, tradurre una realtà complicata in termini comprensibili a tutti, diventa ancora più vitale. La mente corre ai corrispondenti di guerra dei tempi andati, alle cronache di Indro Montanelli, Roberto Terzani, ai colleghi che si gettavano nella mischia sperando che una scritta sulla giacca li avrebbe salvati dai proiettili. Senza il loro sacrificio, non saremmo mai riusciti a capire quello che stava succedendo in quelle terre disgraziate.
Eppure, basta un’occhiata a giornali e televisioni per rendersi conto che, stavolta, nessun italiano era lì per raccontarci quello che stava succedendo. Alla caduta di Kabul, gli unici giornalisti italiani presenti erano i coraggiosi freelance Francesca Mannocchi ed Alessio Romenzi, ora tornati in Italia. Il loro reportage sull’Espresso è l’unico che arrivava dal campo, tutto il resto è stato frutto di interviste telefoniche e conversazioni su Whatsapp. Li sento già i critici. “Figurati se rinunciavano alle ferie d’agosto”. “Non ci sono più i giornalisti di una volta”. Il problema non è questo: ci sono fior di corrispondenti di guerra italiani che non vorrebbero altro che prendere un aereo e raccontarci quello che vedono coi propri occhi. Il fatto è che nessuno si aspettava un collasso così rapido. Fausto Biloslavo, uno che di guerre ne ha viste e testimoniate parecchie, si stava preparando a partire per l’Afghanistan ma è stato costretto a desistere vista l’evoluzione della situazione sul terreno. Dopo aver provato a spiegarci cosa sta succedendo, visti i tanti contatti che è riuscito a crearsi negli anni, sta provando di nuovo. Non ha altra scelta. Mille telefonate non riescono a sostituire quello che un giornalista esperto può capire sedendo dieci minuti in un caffè.
Senza corrispondenti sul campo, i media italiani sono stati costretti a fidarsi del lavoro dei colleghi stranieri o accettare come verità assoluta le dichiarazioni di militari e diplomatici. A soffrirne, ovviamente, è stato il servizio offerto ai lettori. La scelta della RAI di affidare il racconto della situazione ai corrispondenti da Istanbul e Pechino, che hanno ammesso di non aver fonti dirette, è quantomeno scandalosa. Il fatto che le immagini che vediamo arrivino tutte da agenzie internazionali o singoli utenti con un telefonino è l’ennesima riprova della grande crisi che la professione sta vivendo. Non è certo un’evoluzione recente: già da decenni i giornalisti sono stati forzati a raccontare le loro storie dalla redazione, senza consumarsi le scarpe come facevano i nostri maestri. Inutile nascondersi dietro un dito: coprire una storia dal campo non è solo pericoloso, costa.
Da quando i giornalisti sono diventati bersagli mobili, mandare un corrispondente in una zona “calda” significa decine di migliaia di euro spesi per corsi di preparazione, autisti, interpreti, guardie armate, assicurazioni e chi più ne ha più ne metta. Ricordo ancora con orrore la fattura che dovetti firmare nel 2016 alla ditta specializzata che preparò i corrispondenti dell’agenzia internazionale per la quale lavoravo prima di coprire le Olimpiadi di Rio. Nonostante tutte le precauzioni, uno dei nostri reporter si ritrovò dalla parte sbagliata di una pistola e perse la sua costosissima attrezzatura. Moltiplicate tutto per cento e avrete un’idea di cosa voglia dire mandare qualcuno a Kabul oggi.
I veri problemi inizieranno tra pochi giorni, quando le poche truppe occidentali rimaste lasceranno il paese. Senza la loro protezione, i pochi corrispondenti dal campo saranno, prima o poi, costretti a seguirle, lasciandoci alla mercé dei “nuovi” talebani, che, grattata la sottile patina di media training, non sono meno feroci dei vecchi. Quanto ci metteranno i nuovi alleati cinesi a mettere a disposizione i loro avanzati sistemi di censura informatica? Ci sono miliardi di investimenti in ballo, autostrade, miniere, gasdotti da costruire. Pensate davvero che lasceranno liberi di parlare i coraggiosi testimoni disposti a mettere a rischio le proprie vite? Alla fine, sull’Afghanistan calerà di nuovo il silenzio e le tragedie di quel popolo disgraziato spariranno dai nostri media, sostituite dalla prossima isteria collettiva. Non so a voi, ma a me questo fa una tristezza infinita.
Foto: Fausto Biloslavo in una foto d’archivio (Facebook)