Due cose i livornesi le fanno davvero bene. Una è il cacciucco, forse la migliore zuppa di pesce del Mediterraneo, con buona pace di marsigliesi, catalani e greci. L’altra è il ponce, che col tempo è diventato il vero simbolo della città…
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– Luca Bocci –
Durante le nostre chiacchierate settimanali sulla Toscana, abbiamo già parlato qualche volta di quella strana cittadina sul mare a qualche chilometro da Pisa e del fatto di come, nonostante sia stata fondata qualche secolo fa, per molti di noi continui a sembrare fuori posto. Non so se ve ne siete resi conto, ma le cose qui in Toscana non funzionano come da altre parti. Siamo un popolo fatto così, con parecchie stranezze ed un senso della storia difficile da spiegare. L’Arno ha interrato da qualche secolo il porto, ma per noi Pisa rimarrà sempre una città di mare. Quella cittadina di cui sopra, più a sud, quella dove le grandi navi attraccano oggi, nelle nostre teste rimarrà sempre sbagliata, fuori posto. Difficile spiegarlo a chi non sia nato e cresciuto da queste parti. Sarà per il fatto che non è nata come tutte le altre città ma per decreto del granduca, una colonia penale nella quale il peggio della società toscana veniva affiancato a schiavi nordafricani per creare dal nulla un nuovo porto – e dare il colpo di grazia agli antichi nemici di Firenze, ma quella cittadina non ci è mai andata troppo a genio.
Detta in termini più semplici, Livorno non sembra nemmeno Toscana. Non c’entra l’architettura, la gente è diversa, come peraltro l’atmosfera, troppo cosmopolitana, lontana mille miglia dalla burbera riservatezza delle città dell’interno, felicissime di rimanere ancorate alle loro tradizioni secolari e vedere ogni foresto come un intruso da tollerare a malapena. Le cose non vanno così a Livorno, da sempre terra di incontro tra culture diverse, una specie di melting pot ante litteram. Chiaro che i rapporti tra livornesi ed i vicini non siano idilliaci. A parte le rivalità storiche, i livornesi sono troppo. Troppo rumorosi, troppo ansiosi di ostentare la loro ricchezza, sia questa vera o immaginata, troppo pacchiani nella scelta dei vestiti, delle macchine, delle moto, troppo inclini a fare casino ovunque si trovino e, soprattutto, troppo attaccati alla loro strana cittadina nata dal nulla. Onestamente, molte di queste accuse sono abbastanza campate in aria ma, visto che siamo in Toscana, rimarranno attaccate ai livornesi in saecula saeculorum.
Nonostante tutto, anche il critico più feroce e trinariciuto della livornesità deve ammettere che un paio di cose le fanno davvero bene. Una è il cacciucco, forse la migliore zuppa di pesce del Mediterraneo, con buona pace di marsigliesi, catalani e greci. L’altra è un drink che col tempo è diventato il vero simbolo della città. La storia e le tradizioni legate a questa bevanda per stomaci forti sono affascinanti e sconosciute ai più. Ecco perché questa settimana vi parleremo del ponce e di come, in un certo senso, abbia “fatto” Livorno. ASCOLTA LA STORIA
A sentire gli appassionati, non hai davvero vissuto se non hai assaggiato un ponce alla livornese fatto come si deve. Ne parlano come se fosse una specie di elisir di lunga vita, sperticandosi nel magnificarne le proprietà miracolose. Eppure, ad una rapida occhiata, non sembra così speciale. Basta mischiare un espresso ristretto con rum, zucchero e limone – cosa vuoi che ci voglia? Facile. I soliti esagerati. Se volete far perdere la pazienza ad un livornese, provate a ripetere queste parole e aspettate la sua reazione. Per il livornese il ponce è sia un rituale al quale sono affezionatissimi e una parte integrale dell’identità di questa città “nuova”, sempre alla ricerca di tradizioni da rivendicare.
Sul ponce non si scherza, mai. Uomo avvisato, mezzo salvato. Strano quindi che la storia della bevanda non sia stata sviscerata dagli studiosi labronici e rimanga tuttora un misto tra leggenda e sentito dire. Nessuno sa dire esattamente quando sia stato preparato il primo ponce, ma, secondo la tradizione, sarebbe stato frutto di un incidente di percorso. Alla metà del Seicento, per promuovere il nuovo porto, il Granduca di Toscana lo rese un porto franco, garantendo ai mercanti che vi operavano ogni sorta di esenzione doganale. Nel giro di qualche lustro, Livorno diventò una delle destinazioni principali del Mediterraneo, attirando commercianti da mezzo mondo. Secondo la leggenda, un giorno si presentò all’orizzonte un veliero reduce da una traversata atlantica parecchio burrascosa. La nave, a malapena in grado di galleggiare, trasportava rum e caffè dai Caraibi. Le tempeste avevano avuto un effetto disastroso sul carico, rompendo parecchi barili di rum e rovesciandone il contenuto sulle balle di caffè. Dopo aver venduto il vendibile, il capitano fu costretto a quasi regalare il caffè al rum ai lavoratori del porto.
A quei tempi il caffè era parecchio costoso, quindi l’idea di garantirsi una buona quantità di chicchi a prezzo stracciato era sicuramente invitante. Aggiungici la passione dei portuali per l’alcol ed il gioco è fatto. I pochi fortunati che si erano accaparrati i chicchi al rum ne rimasero entusiasti e, una volta consumata la loro scorta, chiesero ai tavernieri del porto di replicare la bevanda. La tradizione del ponce sarebbe nata così. L’aggiunta del limone sarebbe stata successiva e frutto anch’essa del caso. Nonostante dalle nostre parti non cresca bene, di limoni a Livorno ce n’erano sempre parecchi. Le navi in arrivo dalla Sicilia spesso si fermavano qui per vendere i propri carichi ed i limoni danneggiati dalla traversata venivano venduti a prezzi stracciati. Visto che l’igiene all’epoca era alquanto approssimativa, i tavernieri li usavano per sanificare i bicchieri in qualche modo. Bastava prendere una fettina, strofinarla sul bordo del bicchiere e poi versarvi il liquore. La fetta, poi, veniva infilata sul bordo, cosa che la faceva in qualche modo assomigliare alle vele delle navi che si avvicinavano al porto. Il “ponce a vela” sarebbe nato così, sempre per puro caso.
L’origine dello stesso nome della bevanda è controversa. La storia che molti livornesi vi racconteranno è quella legata a Giuseppe Garibaldi e al suo famoso poncho, che aveva portato con sé dopo gli exploit nella guerra civile che portò all’indipendenza dell’Uruguay. Il generale passò parecchio tempo dai suoi amici nella città portuale, che forse gli ricordava la sua Nizza e si narra che, dopo aver assaggiato il suo primo ponce, abbia esclamato: “Questa bevanda è fantastica, ti scalda tutto, proprio come il mio poncho”. Bella storia, ma non molto credibile, considerato che dopo l’Unità d’Italia, ogni singola cosa veniva in qualche modo legata al famoso rivoluzionario. Molto più probabile che il nome venga dalla folta comunità di mercanti britannici che per secoli hanno vissuto e lavorato a Livorno. Come ogni inglese all’estero, si affannavano in ogni modo per riprodurre tutte le loro abitudini nella loro nuova casa, specialmente quando si parla di bevande. Se di rifare la birra inglese non se ne parlava proprio, molto più semplice provare a copiare il famoso punch. La bevanda calda, molto di moda oltremanica, veniva in realtà dall’India. Lo stesso nome deriva da “pancha”, la parola che in Hindi significa “pugno” o “cinque”. Gli ingredienti originali sono appunto cinque: acquavite, té, zucchero, cannella e limone. Peccato che la passione per il tè dalle nostre parti non abbia mai attecchito. Difficile trovarne a buon prezzo a quei tempi. Il caffè, invece, era molto più popolare. Ne arrivava parecchio, specialmente dal Medio Oriente. Una volta rimpiazzato il tè col caffè, la cannella fu messa da parte.
A sentire altri storici, il vero padre spirituale del ponce sarebbe Edward Vernon, ammiraglio della Royal Navy famoso per la conquista di Porto Bello e per il suo cappotto di tessuto grezzo che gli valse il soprannome di Old Grog. L’ammiraglio è conosciuto però per una pratica che prese piede sotto il suo comando, quella di diluire il rum nell’ acqua. Dopo la conquista dei Caraibi, sulle navi di Sua Maestà Britannica era distribuita ai marinai una razione quotidiana di rum giamaicano, con la scusa di combattere lo scorbuto e varie altre malattie. Vernon si rese conto che molti marinai finivano i propri turni ubriachi fradici, spingendolo ad ordinare che il liquore fosse mischiato con l’acqua. La cosa spinse molti ufficiali ad ingegnarsi per rendere il grog più tollerabile, rimpiazzando l’acqua con tè e limone, anche per ragioni sanitarie. Visto che il limone era perfetto contro lo scorbuto, gli equipaggi della Flotta Mediterranea furono incoraggiati a farne uso, cosa che venne notata dai marinai dei vari porti. Alla fine molti provarono la bevanda degli inglesi, specialmente d’inverno, quando un drink caldo non si rifiutava mai. Buona, ma come fare per trovare il tè? Perché non sostituirlo col caffè? Il fatto che gli inglesi ne parlassero come di una medicina fornì la scusa perfetta per mogli e per i vari benpensanti che mugugnavano contro l’alcol. Non è che lo beviamo perché ci piace, ma perché è una medicina contro il freddo. Funziona anche contro il mal di gola, il raffreddore, è una sorta di panacea di tutti i mali! Tutto vero? Probabilmente no, ma non è che i lavoratori del porto avessero molta scelta. Considerato quanto costavano i dottori all’epoca, meglio affidarsi ad un bel ponce caldo. Con buona pace di mogli e benpensanti.
In un modo o nell’altro, il ponce divenne una presenza fissa a Livorno, guadagnandosi un posto d’onore tra le bevande alcoliche. L’ingrediente principale, il rum dei Caraibi, rimaneva comunque costoso e, specialmente con l’avvento del Fascismo, non semplicissimo da procurarsi. Pur di salvare il proprio ponce, l’ingegnosità labronica trovò una soluzione ad hoc. Nel 1929, Gastone Biondi della Ditta Vittori si inventò una variante autarchica del rum, che chiamò “rum fantasia”. I livornesi continuarono a chiamarlo “rumme”, facendo finta di non accorgersi della differenza. Se il rum dei Caraibi è fatto a partire dalla melassa, il rumme livornese è un miscuglio di alcool industriale, sciroppo di caramello e una parte minima di vero rum, tanto per dargli sapore. Il rumme, insomma, non è delicato e profumato come quello dei Caraibi, è più denso, dal sapore decisamente più forte. Da solo, insomma, non regge il confronto ma mischiato con caffè e zucchero è fantastico. La ricetta del Ragionier Biondi è diventata quindi la base irrinunciabile del ponce alla livornese, immutata ed immutabile, almeno a sentire gli appassionati.
Col tempo la ricetta è stata perfezionata, lasciando da parte alcuni aspetti decisamente poco sanitari. Una volta, prima di mettere il caffè macinato nella macchina per l’espresso, lo si bolliva in una pentola d’acqua e filtrava attraverso un panno di lana. Oggi le cose sono più semplici. Il rumme e lo zucchero vengono fatti bollire con il vapore della macchina, ci si aggiunge un espresso ristretto e l’inevitabile fettina di limone. Che non vi venga in mente di chiederlo in tazzina! Vi caccerebbero dal bar coi forconi! Il ponce si beve nel “gottino”, un bicchierino di vetro più largo e tozzo di quello normale. Di solito riporta il logo del bar ed i livelli dei vari ingredienti necessari per un perfetto ponce. Secondo gli appassionati, il segno di un ponce straordinario è quando i vari ingredienti si stratificano, rimanendo separati, ma non sono molti i baristi in grado di compiere questo piccolo miracolo. La ricetta è standardizzata, ma non mancano certo le varianti, lasciando spazio alle discussioni tra puristi e sperimentatori.
Ci sono gli appassionati del “mezzo e mezzo”, ponce con mezza dose di rumme e mezza di “sassolino”, liquore all’anice che una volta si produceva quasi esclusivamente a Sassuolo. Poi ci sono gli amanti del ponce alla torpedine, dove si aggiunge polvere di peperoncino al caffè macinato prima di fare l’espresso. C’è anche chi giura che il ponce migliore sia quello al “cognacche”, dove si unisce una generosa dose di Cognac al rumme per poi lasciar spazio ai veri e propri eretici di Livorno, quelli che preferiscono il ponce al mandarino, visti con estremo sospetto dai tradizionalisti. Qualunque sia la vostra versione preferita, il ponce si beve allo stesso modo. Mescolata rapida e giù, più caldo è meglio è. E non dimenticatevi di succhiare il liquido dalla fettina di limone – assolutamente essenziale. Basta che non fate gli spacconi e provate a berlo tutto d’un fiato: rischiereste una brutta figura. Nel 1906 un certo intrattenitore americano ci rimase malissimo. Quando il 17 marzo il famoso Buffalo Bill arrivò in città col suo circo equestre del Vecchio West, volle provare il famoso ponce. Provò a tracannarlo tutto d’un fiato come un cowboy ma fu costretto a desistere, sorseggiandolo come tutti noi un poco alla volta. Col ponce, insomma, non si scherza.
Puristi o meno, tutti sono d’accordo nel dire che la patria spirituale del ponce è il Bar Civili, vera istituzione labronica a due passi dalla stazione ferroviaria. La bandiera è passata quasi ufficialmente nel 1921, quando il Caffè Bardi, casa di artisti ed intellettuali tra via Cairoli e piazza Cavour chiuse i battenti. Il Civili, presente in via della Vigna 55 dal 1890 e gestito ancora dalla famiglia fondatrice, ha continuato a resistere a tutto e tutti, pandemia inclusa. La gran festa dei 130 anni dalla fondazione è stata solo rimandata. Carlo Fusco, l’attuale proprietario, tiene duro: “Centotrent’anni della nostra storia di famiglia non si buttano via neppure con il Covid. Anche se tutto ora è più difficile, noi siamo sempre qui. È la nostra vita, è il nostro essere. E non molliamo”.
I pittori macchiaioli sono passati a miglior vita ma il Civili resta lì, portabandiera di una tradizione che non vuole saperne di morire. La gran festa si farà, prima o poi. Pochi amano le feste come i livornesi. Non si sa bene come, ma proprio quel piccolo bar vicino alla stazione è diventato il sancta sanctorum del ponce. Il ponce migliore? Quello del Civili, non se ne discute nemmeno. C’è chi dice che ci mettano un ingrediente speciale per renderlo unico. Possibile ma non certo. Nessuno però si azzarda nemmeno a metterne in dubbio la supremazia. Cosa succede quando i livornesi sono costretti a lasciare la propria città per lavoro? Come facevano i loro antenati sulle navi mercantili, si portano con sé l’ingrediente fondamentale per il ponce, quella bottiglia marchiata Vittori che profuma di storia e di casa. L’etichetta è rimasta la stessa dal 1929, rossa e nera con un pizzico di futurismo, come la ricetta originale del “rum fantasia”. Non si scherza con la perfezione, a quanto pare. Eppure c’è una cosa che molti livornesi si rifiutano persino di considerare. Il loro amatissimo rumme non è più fatto a Livorno. La ditta Vittori ha chiuso i battenti da un pezzo, marchio e ricetta sono stati acquisiti dall’Arcaffè, tradizionale torrefazione labronica. Visto che di fare liquori non sono esperti, si sono rivolti ad una distilleria che opera dal 1875, gestita dalla famiglia Taccola. Peccato che non sia a Livorno ma ad Uliveto Terme, a pochi chilometri da Pisa. Il ponce alla livornese fatto a Pisa? Già, alla faccia del campanilismo e dell’odio tra le città. Chiara Taccola, amministratrice delegata della ditta e rappresentante della quinta generazione di Taccola, sta provando a rimanere al passo coi tempi, investendo nella logistica, nelle infrastrutture e soprattutto nel creare una nuova cultura industriale. Attenzione al design delle etichette, ai dettagli, alla ricerca e allo sviluppo di tutti i loro prodotti – tranne uno. Con la grappa, il vermouth, la sambuca puoi fare quel che ti pare, basta che non tocchi il ponce. Quello è sacro per i livornesi. Deve rimanere esattamente com’è, senza se e senza ma.
Chiara ha grandi idee, vorrebbe muoversi verso ricette più specifiche, locali, che rappresentino la straordinaria ricchezza delle nostre campagne. Ha in mente una nuova linea di prodotti innovativa, degli amari che abbiano tutto il gusto ma niente alcool, così da poter essere consumati da tutti, nonostante obblighi religiosi o scelte alimentari. Coraggiosa, non c’è che dire, basta non dirlo ai livornesi. Il ponce analcoolico? Eresia! Se capitate da quelle parti, provatelo di persona. Basta entrare al Bar Civili ed ordinarne uno. Vi consiglierei però di non guidare subito dopo. Fatevi una bella passeggiata verso il mare per smaltire la botta – molto più sicuro -. Come detto prima, col ponce non si scherza.
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