– Luca Bocci –
In Toscana non sono molti gli appassionati dell’autunno. Troppo piovoso, con la tramontana che ogni tanto rischia di fare brutti scherzi, questa è sicuramente la stagione meno amata del calendario toscano. Alcuni, invece, ne vanno assolutamente matti. Più che dei colori delle foglie del bosco o del profumo del vino novello, a farli andare matti è il profumo ed il gusto dei funghi. A parte i fedelissimi dei porcini o delle varie altre specie, il sogno segreto di molti di loro è il re del bosco, il tartufo bianco di San Miniato, tra i più pregiati al mondo. Il tartufo bianco, specialmente in una stagione di magra come questa, ha prezzi da far lacrimare gli occhi, oltre 5000 Euro al chilo, cosa che ha fatto la fortuna di una cerchia ristretta di famiglie che hanno fatto della sua ricerca una professione tramandata da padre in figlio.
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L’oro bianco delle colline ha dato origine a cani particolarissimi, che arrivano a valere decine di migliaia di euro. Grazie a loro, la storia d’amore con questo fungo particolarissimo, nata ai tempi dei greci e continuata sulle tavole di ricchi e potenti, riesce a continuare al giorno d’oggi, magari in una delle mostre mercato popolate discretamente da inviati degli chef più famosi del mondo. Seguiteci in questo viaggio nell’universo parallelo dei cercatori di funghi – non ve ne pentirete. ASCOLTA LA STORIA
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Ora che il caldo dell’estate è ormai solo un ricordo lontano, gli occhi di tutti sono puntati sul Natale e sul conto alla rovescia verso la stagione degli stravizi, dei regali e dei monumentali cenoni in famiglia. Succede tutti gli anni, ma chissà come mai, questo tempo strano tra la fine dell’estate e l’inverno vero e proprio non riesce mai ad entusiasmare noi toscani. Amanti dell’estate, del caldo, del mare ne trovi ad ogni angolo, come di appassionati dell’inverno, della neve, dello sci o dello snowboard. L’autunno, invece, se lo filano davvero in pochi. Sarà per il fatto che piove spesso e volentieri, che di tanto in tanto la tramontana gelida ti becca di sorpresa o che quasi tutte le alluvioni sono successe di questi tempi ma l’autunno è un poco la pecora nera del calendario toscano. Quando arriva lo festeggiano in pochi e ancora meno lo rimpiangono quando lascia il posto all’inverno. Altrove le cose vanno diversamente. ASCOLTA LA STORIA
Se in America questa è la stagione del Ringraziamento, la vera festa nazionale delle famiglie oltre al 4 luglio, nei paesi nordici sono molti ad entusiasmarsi quando le foglie sugli alberi cambiano di colore e tornano di moda certe bevande calde speziate al profumo di zucca. In Toscana, invece, l’autunno è stagione di passaggio, all’insegna dell’attesa. Finita la vendemmia, bisogna aspettare che il mosto maturi prima di poter gustare il vino delle nostre colline. Certo, c’è la nuova moda importata dai cugini transalpini, quel vino novello copiato dal più famoso Beaujolais Nouveau che si sta conquistando ampie fasce di mercato, ma per noi tradizionalisti è una presenza strana, poco gradita. Quest’anno poi, è addirittura uscito a fine ottobre, invece che l’11 novembre, a San Martino, quando si dice che “ogni mosto diventa vino”, battendo di tre settimane il cugino francese. Non è certo il profumo di questo vinello leggero, fin troppo delicato per i nostri palati abituati alla consistenza dei nostri vini “veri” a segnare questo periodo dell’anno. L’autunno, in Toscana, ha un profumo più terragno, deciso ed inconfondibile, quello dei funghi.
La storia d’amore tra i toscani ed i funghi è tanto antica quanto questa terra, nata quando la povertà era la norma. Per i nostri antenati i funghi non erano una prelibatezza ma un regalo della terra buono per usare il poco tempo libero e mettere qualcosa da parte per sopravvivere all’inverno. Per chi li sa cercare e distinguere quelli buoni da quelli velenosi, qualche mattinata passata tra i boschi poteva garantire un buon raccolto di funghi in grado di trasformare ogni piatto in un’esplosione di sapori. Invece di usarli subito, meglio seccarli o metterli sott’olio. Nei giorni più lunghi e difficili dell’inverno sarebbero stati preziosi. Una volta che la miseria nera è diventata fortunatamente un ricordo, i funghi sono diventati un business e una tradizione conservata gelosamente e tramandata di padre in figlio in molti dei nostri borghi. C’è anche chi l’ha trasformata in una vera e propria professione. Il mondo dei cercatori di funghi è una sorta di universo parallelo, fatto di segreti di famiglia, posti speciali sconosciuti a tutti, appostamenti per fregare i rivali e cani che finiscono per valere migliaia e migliaia di euro. Le loro storie sono tanto affascinanti quanto curiose. Per questo, questa settimana, abbiamo deciso di raccontarvene qualcuna.
Come tutto peraltro nella vita, non tutti i funghi sono uguali. A parte quelli velenosi, è più che altro una questione di gusti e di stagione. Le varietà si sprecano, dai gallinacci gialli ai cosiddetti “gambesecche”, specialità primaverili difficili da trovare, dai pioppini tipici della stagione estiva ai prataioli, che poi sarebbero la versione selvaggia degli onnipresenti champignons coltivati che si trovano al supermercato. L’autunno è la stagione principe dei lardaioli, dei finferli, delle “trombette dei morti” e del re del bosco, il porcino, fungo per il quale molti appassionati farebbero di tutto. Gli amanti dei funghi sono una specie di società segreta, con il proprio linguaggio, segnali di riconoscimento e santuari non ufficiali, le trattorie in campagna che, chissà come, riescono sempre ad avere i funghi più freschi e prelibati. Se non fai parte della setta, anche una semplice conversazione rischia di trasformarsi in un interminabile monologo con estrema dovizia di particolari su ogni aspetto della ricerca dei funghi, disamine infinite tra questa o quella qualità e chi più ne ha più ne metta.
In questo universo parallelo, c’è poi una categoria a parte, dedicata al culto di un fungo talmente diverso da essere spesso scambiato per un tubero. Un fungo speciale, specialissimo, tanto difficile da trovare e ricercato da diventare incredibilmente costoso. Gli chef dei ristoranti stellati di mezzo mondo vanno in pellegrinaggio in pochi posti speciali pur di riuscire a rifornirsi di questa materia prima incredibile, in grado di trasformare la più semplice pasta in un capolavoro di gusto da vendere a prezzi astronomici. Il tartufo è una vera e propria rarità, visto che per crescere non affida le spore al vento ma si serve degli animali, attirati dal suo odore pungente. A prima vista sembra una piccola patata stentarella ma per gli amanti del genere è più prezioso dell’oro. I tartufi, specialmente quelli bianchi, la qualità più ricercata, passano di mano a migliaia di euro al chilo, visto che crescono solo in pochi posti al mondo. Anche gli chef più ricercati li usano quindi con estrema parsimonia, una grattatina, qualche scaglia qui e là anche nel piatto più costoso. Anche se molti hanno provato a coltivarli, i risultati non sono paragonabili a quel che si trova in natura. I pochi posti al mondo dove si riescono a trovare diventano quindi santuari del culto del tartufo. Uno di questi paesi è San Miniato, abbarbicato sulle colline del Basso Valdarno, dove la ricerca del tartufo è diventata un mestiere custodito gelosamente da poche famiglie che tramandano i propri segreti di padre in figlio. Le loro storie sono tanto strane quanto affascinanti.
I “tartufai” sono figure ormai mitiche che tengono viva la ricca filiera del mercato del tartufo grazie alla loro maestria nell’allevare i loro fedeli amici a quattro zampe e ad una conoscenza approfondita del territorio. Per raccogliere queste pepite d’oro bianco come i petali della margherita servono cani speciali, pronti, insieme, a percorrere a piedi decine di chilometri per raggiungere i migliori luoghi di ricerca. Questi posti speciali sono segreti preziosi, difesi ad ogni costo dalle varie famiglie, in un gioco che farebbe invidia a James Bond. Il tartufaio parte inevitabilmente all’alba, cambia spesso itinerario, lascia il suo mezzo di trasporto lontano talvolta chilometri per poi incamminarsi nel bosco con l’intenzione di far perdere le sue tracce quanto prima. Niente è lasciato al caso, i rivali sono sempre lì, nella loro testa, col fiato sul collo.
I tartufai più esperti tolgono la zolla di terreno in un unico blocco per poi ricollocarla nello stesso punto al termine dell’escavazione, rimettendo a posto anche l’erba, anche se non hanno trovato niente. Mai lasciare tracce che possano segnalare la tua presenza ai rivali, il tartufaio è una specie di ninja dei boschi, metodico e preciso. Molti tengono un diario accurato, segnando il luogo e il momento del ritrovamento dei tartufi di San Miniato, così da potervi tornare l’anno successivo nello stesso periodo. Nel diario finiscono anche i dati meteorologici, dall’umidità all’intensità delle precipitazioni, sapendo che, con la prima pioggia, essi nascono in certe zone e non in altre. Il cercatore di tartufi è comunque responsabile, come ci si aspetterebbe da un conoscitore esperto dei boschi. Invece di fare incetta di tartufi, si preoccupa di non impoverire troppo le tartufaie naturali, fonti della sua ricchezza. Niente buche di escavazione aperte, quando si trova un frutto non maturo non si deve mai raccogliere per non compromettere il micelio, la fittissima rete che unisce le piante del sottobosco e genera l’oro bianco delle colline.
Andare per tartufi non è un’arte che si impara in cinque minuti, i veri esperti vengono da una piccola cerchia di famiglie che difendono gelosamente i propri segreti. Si dice che una volta, invece dei cani, si usassero dei maiali dotati di un fiuto quasi prodigioso ma anche di un caratterino non proprio raccomandabile. Le cose cambiarono alla fine del XIX secolo, quando dei gruppi di taglialegna romagnoli si trasferirono nella zona per lavorare. Con loro portarono alcuni bastardini particolarmente adatti alla caccia al tartufo, che attirarono l’attenzione dei contadini, ansiosi di garantirsi un reddito extra. Alla fine, affidarsi a questi strani cagnolini e a questi straordinari frutti del bosco fu una scommessa vincente. I tartufi bianchi di San Miniato si garantirono nel giro di pochi lustri un posto d’onore sulle tavole dei ristoranti più prestigiosi del mondo, ultimo capitolo di una lunghissima storia d’amore con questo profumatissimo fungo, tanto antica da confondersi col mito.
Come spesso succede, anche l’origine del tartufo viene fatta risalire all’iracondo re del pantheon greco, Zeus. Secondo l’autore romano Giovenale, il tartufo sarebbe nato quando uno dei fulmini del sovrano dell’Olimpo colpì una quercia durante un temporale. Oggi sappiamo che la quercia, albero sacro a Zeus, è una delle piante simbionti più adatte alla crescita del tartufo. Realtà o mito poco importa, i Greci andavano pazzi per questo “cibo degli dei”, esportandolo addirittura in Oriente, dove Egiziani e Babilonesi lo cucinavano avvolto nel grasso d’oca. Il fatto che Zeus avesse sparso in giro legioni di figli legittimi o meno lo trasformò in un potentissimo afrodisiaco. Il famoso medico del II secolo Galeno non aveva dubbi: il tartufo “può disporre della voluttà”, meglio se cotto sotto la cenere ed abbinato al miele. Il gastronomo Marco Gavio Apicio, nel suo De re coquinaria, consigliava di lessarlo con porri e condito con pepe, sale, coriandolo, menta, olio, accompagnando il tutto con un buon vino. I tartufi più disponibili ai tempi dell’Impero Romano non erano nostrani, ma venivano dalla Libia ed erano sicuramente meno profumati e saporiti di quelli che conosciamo oggi. Il nome nasce proprio negli ultimi anni dell’Impero, quando si inizia a parlare di “terra tufule tubera”, tuberi che assomigliano al tufo. Tradotto nelle varie lingue, tufule sarebbe diventato “trifula” e quindi “truffe” e “truffle” in francese o inglese.
Gli anni bui del Medioevo vedono il declino dei “cibo degli dei”, avvicinato inevitabilmente al diavolo. Molti inquisitori vedevano con sospetto la sua origine sotterranea e lo credevano parte di non specificati riti satanici e infernali. Di qui si diffonde la credenza che sia velenoso. Il fatto che si trovi solo in luoghi impervi e pericolosi non ha certo aiutato. Con l’Umanesimo e il Rinascimento si rinnova l’amore per il tartufo, a partire dal Petrarca, che lo celebra in uno dei suoi sonetti. Sia Lucrezia Borgia che Papa Giulio II amano il tartufo, che ricevono passando da Acqualagna, nelle Marche: una cittadina che ha il vanto, ancora oggi, di avere un apposito Assessorato al Tartufo. Caterina de’ Medici ne andava ghiotta e se lo portò con sé in Francia, goloso e prezioso ricordo della sua Toscana. Nel Settecento il tartufo diventa un’esclusiva lussuosa per i re europei, cosa che spinge il piccolo Piemonte a puntare su questo “oro bianco”. Carlo Emanuele III di Savoia, nel 1751, organizzò addirittura un viaggio a Londra, per pubblicizzarlo alla corte inglese. Il tartufo riunì poi rivoluzionari e forze della Restaurazione: se Napoleone Bonaparte ne è ghiotto, al successivo Congresso di Vienna, che nel 1815 riorganizzò le monarchie europee, il tartufo era sempre sul menù. Il XX secolo vede la nascita delle prime mostre mercato, a partire dalla prima organizzata ad Alba nel 1929. Alla “Fiera campionaria a premi dei rinomati tartufi delle Langhe” si aggiungeranno poi quelle di Acqualagna e San Miniato, attirando appassionati da tutto il mondo.
Ieri come oggi, senza il rapporto speciale tra il tartufaio ed il proprio cane non ci sarebbero tartufi. Questa relazione, sviluppata nelle lunghe camminate tra i boschi, combattendo contro il freddo, la pioggia e la noia, talvolta passando ore a cercare senza trovare un bel niente. Per addestrare un cane da tartufi ci vogliono anni, il che spiega perché i campioni diventino estremamente costosi. Quando sono cuccioli, inizia tutto come un gioco. L’odore del tartufo viene associato ad una ricompensa. Poi il tartufaio inizia a fare sul serio, sotterrando alcuni piccoli tartufi in giardino e lasciando che il cane li cerchi. Una volta diventato bravo, inizia ad andare per boschi, solitamente accompagnato da un cane esperto, così che il giovane impari ad imitare il suo comportamento. Spesso queste spedizioni si fanno a Luglio e Agosto, quando nei boschi di San Miniato si trova una variante estiva detta “marcia”. Questi tartufi, infatti, vengono quasi subito uccisi dal calore, marcendo in fretta. Commercialmente sono quindi inutili ma diventano preziosi per addestrare i cani. La tappa successiva avviene di solito verso Marzo, quando il cane viene mandato da solo a cercare il cosiddetto “marzuolo”, una varietà di tartufo non particolarmente apprezzata ma molto più diffusa di quello autunnale, quello che fa perdere il sonno agli appassionati. Non tutti i cani sono uguali, ognuno ha un carattere diverso, particolarità alle quali l’uomo deve adattarsi.
Non c’è dubbio che il vero protagonista della ricerca sia il cane: il tartufaio si affida completamente al suo fiuto. I cani fanno una specie di danza quando iniziano a sentire il profumo del tartufo. Ficcano il naso per terra, annusano i cespugli attorno, tornano indietro fino a quando non sono sicuri di aver trovato qualcosa. A questo punto iniziano a scavare furiosamente, abbaiando, correndo in tondo per attirare l’attenzione del tartufaio. Quando arriva, alcuni cani si mettono a sedere, aspettando la propria ricompensa. Altri, invece, non ne vogliono sapere di mollare e lottano, provando a battere l’uomo per trovare il proprio tesoro. Un carattere focoso non è desiderabile per un cane da tartufi ma alla fine quel che conta è il fiuto. Finito l’addestramento, il cane passerà giornate su giornate col suo compagno, da fine Settembre a Dicembre, percorrendo sentieri sconosciuti ai più, in una entusiasmante caccia all’oro bianco delle colline. Col tempo, però, anche il campione più straordinario non riesce più a trovare tartufi e viene messo in pensione. Passerà il resto della sua vita coccolato e viziato dal proprio compagno umano, membro onorato della sua famiglia.
Cosa rende speciale un cane da tartufi? Solo l’istinto o c’entra qualcosa anche la razza? Difficile da dirsi. Ufficialmente c’è solo una razza riconosciuta ufficialmente dalla Federazione Internazionale Cinologica a partire dal 2005, il lagotto romagnolo, discendente da quei cani che i taglialegna portarono in Toscana il secolo scorso. A San Miniato non sembra che si facciano grossi problemi a riguardo. Quello che conta è che trovino i tartufi, della razza non è che se ne freghino molto. Negli anni ogni tipo di cane è stato usato, dai bastardini comuni a razze che nemmeno hanno un nome e sono frutto di incroci portati avanti dalle varie famiglie locali. Il pedigree importa zero, ma c’è chi si affida solo a cani discendenti da ottimi cercatori, il che fa spesso salire alle stelle il loro prezzo. Questi esemplari locali sono quasi tutti di taglia medio-piccola con un aspetto che a volte ricorda il lagotto, anche per il pelo riccio, altre volte l’Epagneul Breton. I tartufai più avventurosi o meno ammanicati si sono affidati ad ogni tipo di cane pur di trovare tartufi, avendo qualche successo con varie razze, dal Barbone al Pointer, dallo Spinone al Bracco italiano fino a Terrier, Griffoni o persino Labrador. Non sembra esserci spazio per i puristi in questo universo parallelo, ma i cani migliori riescono a guadagnarsi un posto nel libro dei record. Ad oggi, il cane da tartufi più famoso di sempre si chiamava Paris e nell’autunno del 1954 trovò il più grande tartufo di sempre a San Miniato, un mostro pesante 2 chili e 18 tacche. Ritrovamenti del genere sono incredibilmente rari, visto che i tartufi di solito sono piuttosto piccoli. Se poi il meteo non collabora, le cose si complicano non di poco. Quest’anno, per esempio, la siccità tra settembre e ottobre ha causato un netto ritardo nella raccolta, spingendo i prezzi alle stelle. Sul mercato di Acqualagna il tartufo bianco è arrivato a 5000 Euro al chilo, una quotazione straordinaria per questo periodo dell’anno.
Il presidente della Coldiretti pisana Fabrizio Filippi se la prendeva col tempo e la legge della domanda e dell’offerta. I tartufi sono principalmente fatti di acqua e sali minerali che assorbono dalle radici degli alberi. Per riuscirci, il suolo deve essere umido. La produzione da alcune delle tartufaie di San Miniato è precipitata, un meno 90% rispetto al 2020. Flavio Rabitti, nonostante abbia più di 20 ettari di bosco di solito piuttosto produttivo, fino a metà novembre non riusciva a trovare niente. L’estate calda ha avuto un impatto devastante. La fioritura estiva di solito dura fino alla fine di settembre – quest’anno ad inizio agosto erano già tutti spariti. I tartufi in giro si trovano ma vengono quasi tutti dall’Est Europa, principalmente Bulgaria e Romania, dove il clima è stato più clemente. I prezzi sono alti ma la qualità non è la stessa di quelli italiani. Capita quindi che gli appassionati spendano delle fortune per assicurarsi i tartufi per poi essere delusi quando se li ritrovano nel piatto. Il modo migliore per evitare brutte sorprese è quello di rivolgersi direttamente ai tartufai di San Miniato – sempre che, naturalmente, riescano a trovare qualcosa. Il vero incubo per molti di loro è un periodo prolungato di piogge pesanti e piccoli smottamenti che rovinino il terreno dove crescono i tartufi. Un occhio in terra, uno al cielo – la vita del tartufaio certo non è facile.
Nonostante i prezzi non siano economici, il mercato dei tartufi non è certo marginale. Secondo gli ultimi studi, il fatturato dei tartufi freschi e dei prodotti derivati vale qualcosa come mezzo miliardo di Euro all’anno, molti dei quali passano dalle varie mostre mercato che si organizzano in Toscana, Piemonte e nelle Marche. Dopo esser stati costretti a cancellare la scorsa edizione, a San Miniato si sta festeggiando la cinquantesima Mostra Mercato del Tartufo bianco, con oltre cento esibitori ed alcuni degli chef più famosi al mondo discretamente ad aggirarsi tra i vari stand. Il terzo ed ultimo weekend sta per prendere il via, ma in giro di tartufi se ne vedono proprio pochi. Il prezzo continua ad oscillare tra i 40 e 45 euro al grammo, sempre che i tartufai abbiano ancora prodotto da vendere. Le restrizioni Covid hanno costretto alla limitazione degli spettatori, che saranno sicuramente molto meno dei sessantamila delle edizioni più di successo. La qualità dei pochi tartufi trovati sembra molto buona, ma i prezzi dei tartufi di taglia più grande, oltre 50 grammi, sono schizzati alle stelle, superando i 6000 euro al chilo, più del doppio dell’anno scorso. Guido Franchi, capo dell’associazione dei ricercatori, dice che i suoi 300 tartufai continuano a cercare a più non posso tra i boschi ma che le cose non sembrano migliorare molto. Se per i tartufi è stata un’annata magra, i cercatori di funghi normali hanno avuto parecchia più fortuna, specialmente nel nord della regione.
Il meteo clemente ha permesso a porcini e altre specie di funghi di crescere ad altitudini molto più basse che negli altri anni, mettendo in moto l’esercito di cercatori amatoriali. Se avete occasione di guidare in collina, vi è mai capitato di vedere delle macchine parcheggiate in posti improbabili, nel mezzo del nulla? Non è detto, ma è probabile che quella sia la macchina di un cercatore non molto esperto – i professionisti sono più attenti nel coprire le proprie tracce. Per fortuna questi amanti del bosco sono abbastanza civili ed evitano di lasciare spazzatura in giro, non fosse altro per evitare di essere seguiti.
Detto tra di noi, pur non essendo mai stato un grande appassionato di funghi, non posso che guardare a questi forzati del bosco con simpatia. In un mondo che ci vorrebbe sempre di più inchiodati davanti ad uno schermo e chiusi nelle nostre quattro mura, qualunque cosa ci spinga ad uscire nella natura e passare del tempo respirando aria pulita è più che benvenuta. Basta che non vi improvvisiate cercatori provetti e buttiate direttamente in padella i funghi che avete trovato dietro casa. Meglio non correre rischi e farli vedere a degli esperti. Se poi volete godervi il gusto dei funghi nostrani senza problemi, fate un salto in una delle tante sagre che si organizzano nella nostra regione. C’è chi dice che non hai davvero vissuto se non hai assaggiato dei porcini selvatici cotti come si deve. I tartufi, almeno per quest’anno, li eviterei. Trecento euro per un piatto di pasta mi sembrano un attimo eccessivi.
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