– Paolo Lazzari –
Ci sono luoghi che racchiudono storie di sofferenza che si mescola al riscatto. Posti fisici che diventano anche pieghe dentro alle quali indagare scrupolosamente la propria anima. Il carcere delle Murate, a Firenze, risponde perfettamente all’identikit. Il complesso, incastonato ai margini del quartiere di Santa Croce, circondato da un dedalo di vie oggi percorse senza sosta, è sempre stata una ammirevole fucina di avvenimenti. Certo, oggi che indossa gli abiti ammiccanti di un caffè letterario, certe cose viene difficile soltanto pensarle. Eppure accaddero.
Di sicuro, premessa propedeutica alla comprensione, i luoghi di detenzione spesso si trasformano in luoghi d’azione, ma per il pensiero che si è sedimentato alle spalle. La vita in cella sa come rimorchiare sentimenti negativi, nutrendosi dello sdegno che monta per gli spazi angusti, il trattamento ricevuto, alcune convivenze difficili e, sopra ogni cosa, l’atterrente smarrimento di una normale esistenza sociale. Eppure il carcere sa essere occasione per sviluppare mutamenti interiori profondi. Potrebbe non essere un caso, del resto, il fatto che le Murate – dal 1300 – furono sì luogo di reclusione, ma con un’altra accezione del termine. Questa, infatti, era la casa di un nutrito gruppo di suore di clausura che avevano votato tutto alla povertà e alla castità. “Le murate”, del resto, non è certo un termine che compare dal nulla. Esso scaturiva piuttosto proprio dalla scelta di queste oblate che, riluttanti ad una vita anche soltanto venata di parvenze mondane – preferivano entrare qua dentro (inizialmente ospitate in una manciata di casette sparse sull’attuale Ponte alla Grazie, poi nella struttura, ndr) per prendere le distanze dai fatti della carne. Una volta entrate, la porta alle loro spalle veniva chiusa con una pila di mattoni: le religiose, appunto, venivano murate dentro.
Ecco. In questo contesto da sempre capace di mescolare con disinvoltura sacro e profano, le proteste e le rivolte sono state storicamente una costante. Una di queste, sfociata in un’evasione di massa, è rimasta incisa nei ricordi. Alluvione del ’66. Firenze è sommersa da un profluvio di acqua e fango. Strade e monumenti sono scarificati, come lo spirito. Alle sei del pomeriggio del 4 novembre l’acqua ha già raggiunto i quattro metri d’altezza. Le Murate non sono esenti dalla tragedia: diversi detenuti restano intrappolati e uno di loro muore annegato. Il panico si diffonde rapidamente e soltanto l’intervento del cappellano del carcere, don Danilo Cubattoli, evita il peggio. Il prelato si fa aiutare dal primo gruppo di soccorritori arrivato nella struttura e spalanca la porta di tutte le celle, facendo uscire oltre duecento detenuti.
La maggior parte di loro decide di rifugiarsi sui tetti, al fianco degli agenti di custodia. Ottantatré di loro però scelgono diversamente: sfruttando il caos del momento, riescono ad evadere dalle Murate e anche dalle vicine carceri femminili di Santa Teresa. Quattro vengono riacciuffati poco dopo, malgrado il momento non sia evidentemente dei migliori per un inseguimento. Altri dieci si ripresentano spontaneamente. Degli altri, invece, non c’è più traccia. Dissolti nel marasma generale. Alcuni verranno ritrovati nelle settimane successive, altri la faranno franca. Un’immane tragedia ha restituito la libertà a chi si è armato di coraggio e tempismo: la fuga è sbagliata, ma resterà per sempre uno degli avvenimenti più pittoreschi nella storia di un posto che – tra preghiere e peccati – rimane denso di contraddizioni.