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Vittorio Locchi, il poeta valdarnese nella Grande Guerra

- Cultura
20 Maggio 2022

Roberto Riviello

È noto che nella Grande Guerra combatterono giovani provenienti da ogni parte d’Italia e di ogni estrazione sociale e culturale; e tra questi molti scrittori, poeti, artisti: così videro la luce nelle trincee opere straordinarie come “Il porto sepolto” di Ungaretti, le cui poesie poi confluirono in quella che è considerata la raccolta poetica più importante del primo Novecento: “Allegria di naufragi” e successivamente solo “L’allegria”.

Anche D’Annunzio, il poeta-guerriero per eccellenza, scrisse il suo celebre “Notturno” durante la convalescenza che lo obbligò a vivere per un periodo al buio, a causa di un incidente aereo avvenuto il 15 gennaio 1916 dopo aver sorvolato Trieste. E a questi nomi famosissimi si potrebbero aggiungere quelli dei futuristi, che furono interventisti della prima ora e poi si arruolarono come volontari: Marinetti, lo scrittore fondatore del Movimento, i pittori Boccioni, Sironi, Balla, Depero, l’architetto Sant’Elia.

Ma non bisogna dimenticare Vittorio Locchi, giovane poeta toscano, nato a Figline Valdarno l’8 marzo 1889, che partecipò alla presa di Gorizia e morì poco dopo, il 15 febbraio 1917, a capo Matapan, lungo le coste della Grecia; dove il piroscafo che stava portando i soldati italiani a combattere in Macedonia contro l’esercito della Bulgaria venne affondato da un sommergibile tedesco.

A raccontare la vita e la morte del poeta valdarnese, in un bel romanzo storico ampiamente documentato e arricchito con preziose foto d’epoca, ci ha pensato la critica d’arte Serenella Ferrari con “Vittorio Locchi e il cane Isonzo” (Robin Edizioni); che è venuta a presentare il libro a Figline sabato 14 maggio nella prestigiosa cornice del palazzo Pretorio, e qui è stata accolta calorosamente da numerosi figlinesi che, insieme ai goriziani, conservano ancora la memoria dell’autore della Sagra di Santa Gorizia.

Vittorio Locchi fu anche autore di testi teatrali e di raccolte di poesie, ed è ricordato – ma non come meriterebbe quantomeno nelle antologie scolastiche – soprattutto per il suo poemetto in versi liberi, che quindi si può collegare benissimo alle tendenze ad esso contemporanee della poesia sperimentale e che rievoca con toni epici, senza scadere nella retorica del militarismo e della guerra, la conquista di Gorizia avvenuta il 9 agosto 1916.

Quel poemetto, come la Ferrari ci spiega, fu per così dire “commissionato” al poeta da un suo ammiratore, il generale e comandante di Corpo d’Armata Ruggeri Laderchi, il quale era convinto che la sua lettura sarebbe stata di grande aiuto psicologico e morale per i soldati. E così fu, soprattutto dopo la sua pubblicazione avvenuta, però, quando il Locchi era già morto nelle acque del mare greco. È molto struggente la pagina del romanzo, in cui si immagina che il poeta guardi dal ponte del piroscafo Minas l’isola di Zante e, come avvertendo il destino di morte che lo attende, ripeta fra sé e sé i celebri versi di Foscolo: “Ne più mai toccherò le sacre sponde / ove il mio corpo fanciulletto giacque,/ Zacinto mia, che te specchi nell’onde/ del greco mare da cui vergine nacque / Venere, e fea quelle isole feconde/ col suo
primo sorriso…”

Il fascismo poi fece di Locchi un altro poeta-guerriero e lo celebrò come uno dei suoi padri fondatori. Niente di più falso: Locchi era già morto da due anni quando Benito Mussolini presentò in piazza San Sepolcro a Milano il movimento dei Fasci italiani di combattimento (23 marzo 1919); e pertanto il poeta figlinese, durante la sua breve vita, neppure sentì parlare di fascismo. Ma purtroppo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il suo nome venne associato alla cultura del Ventennio, e da qui iniziò l’operazione che oggi chiameremmo “politically correct”, per cui l’opera di Vittorio Locchi fu “cancellata” dalle antologie e dai testi scolastici, condannando ingiustamente il poeta al dimenticatoio.

Per questo, va riconosciuto un grande merito a Serenella Ferrari che col suo romanzo storico ha riportato alla luce la figura di un autentico poeta e di un giovane coraggioso, i cui versi meriterebbero di tornare a circolare sui banchi di scuola:

“E voliamo nel sole,/ anima mia!/ Facciamoci coraggio/ e, colla voce tremante/ della passione, cantiamo/ i fratelli di campo:/ quelli che vissero,/ quelli che morirono,/ quelli che fra la morte/ e la vita,/ sbiancano nei letti/ lontani, e in sogno delirano,/ credendosi ancora sul Carso/ e sull’Isonzo,/ sul Calvario/ e sul San Michele,/ nella mota rossa/ e nelle petraie/ seminate di morti/ che guardano il cielo…”

Roberto Riviello

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