– Ilaria Clara Urciuoli –
Ultima settimana per l’opera a Firenze: è esposta fino a venerdì 29 maggio all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze.
Ad uno ad uno il Cristo giudicante ci guarderà e in noi troverà virtù e colpe, tensioni e superficialità da perdonare o condannare. In un gesto le sorti del genere umano fatto di singole passioni e di coralità. Come Gesù, a guardare nell’animo questa moltitudine di individualità anche Marison Ray, artista svincolata dalle strette esigenze di mercato, con un lungo passato nel design vissuto in giro per il mondo, che dall’alto della sua libertà e del suo ponteggio di tre piani si cimenta in un nuovo Giudizio Universale che è Vertigine d’altezza, di luce, di duro lavoro. Oltre 6 metri di altezza per un dipinto che traghetta quello michelangiolesco della Cappella Sistina nella tragicità di questi anni con una capacità espressiva che si dichiara apertamente nella costruzione di ogni singolo corpo, sguardo, tormento interiore espresso nel movimento (lieve o sofferto nell’ascesa, sanguigno quando rivolto verso il basso).
Le pennellate cariche, intense e i colori densi, vivi, drammatici negli accostamenti arditi sono protagonisti, tanto quanto i “nuovi santi” che sono dichiarazione d’intenti e di valori, di necessità di rielaborazione delle nostre vite. Gandhi e Madre Teresa di Calcutta, simboli di pace e di dedizione al prossimo, si accostano a Dante, maestro nell’interpretazione corale delle schiere di anime tanto salve quanto dannate, cantore impeccabile del contrappasso e del divino amore. Sotto di loro la resurrezione della carne e la traversata dello Stige, con un demone traghettatore che allude al dramma dei migranti, di coloro che, in cerca di speranza, vagano sul Mediterraneo sbarcando in un nuovo inferno.
Dal confronto con il Giudizio Universale michelangiolesco, cui Marison Ray rende omaggio con Vertigine, emerge un sostanziale rispetto della divisione degli spazi ma risaltano anche tante novità. La prima, quella che si evidenzia già solo esaminando la sola geometria d’insieme, è l’assenza delle lunette, che corrisponde all’eliminazione (almeno parziale) nel quadro dei riferimenti alla passione di Gesù. Questo “taglio” crea all’interno dell’opera un equilibrio diverso, spostando più in alto la figura del Cristo che, nel Giudizio cinquecentesco, era sovrastata dagli angeli portatori di corona, croce e colonna, angeli che, in un certo senso, sembravano ricordare all’osservatore il sacrificio che legittima il ruolo rivestito da Gesù tanto nella religione quanto nel quadro.
Una seconda novità che cattura l’osservatore riguarda direttamente la figura del Cristo (per coinvolgere almeno parzialmente anche la Madonna): nella sua Vertigine Gesù è avvolto da una luce tanto intensa da “cancellarlo”, da trasformarlo in una visione, piuttosto che in piena presenza, privandolo in un certo senso della sua fisicità. Tuttavia questo scomparire nella luce gli dona nuova centralità, forse anche perché ci costringe a cercarlo ricostruendone i contorni persi.
Vera protagonista e radicale novità del quadro di Marison Ray è la drammaticità racchiusa nella pennellata e nel colore, distribuiti entrambi a sottolineare l’intensità di ognuna delle 295 figure rappresentate in un movimento che da espressione diventa forma e presenza, tanto fisica quanto, soprattutto, spirituale. Una drammaticità profondamente diversa da quella di Michelangelo.
L’opera ci vede impegnati (come spettatori) in un lungo viaggio interiore, accompagnati dalla stessa pittrice che, attraverso un’istallazione esterna alla tela, ci introduce alla scoperta di questo mondo simbolico ed espressivo e del complesso gioco di dualità e rimandi che l’opera sottende. Un doppio livello con una presenza che è allo stesso tempo estranea e parte integrante dell’opera: sulla sinistra del quadro, in corrispondenza delle anime salve, si trova infatti la sagoma della sua figura che esce dalla cornice, dichiarando così la sua appartenenza ad un mondo altro dal quadro, un mondo pienamente contemporaneo sul quale poggia i piedi per stagliarsi verso l’alto. Tuttavia i pantaloni che indossa creano continuità con lo sfondo, così come il maglione riesce a mimetizzarsi bene nella nudità dei tanti personaggi. Inoltre quella mano alzata dà al suo corpo una tensione spirituale affine a quella delle anime che risorgono. Colpisce indubbiamente la mascherina che contribuisce a rendere la presenza più viva per l’osservatore contemporaneo e al tempo stesso delinea un “ora” che si staglia sul valore eterno della rappresentazione, proprio come fa la sagoma sul quadro.
La raggiungiamo a Torino per conoscere il dietro le quinte di un lavoro tanto impegnativo quanto sorprendente per chi si accosta senza pregiudizi all’opera.
Confrontarsi con Michelangelo non è mai operazione scontata, tantomeno confrontarsi con il Giudizio Universale, opera di enormi dimensioni e di enorme peso nella storia dell’arte. Come nasce l’idea di questo lavoro?
“Vertigine è stato un omaggio che ho voluto fare a Michelangelo, ancor più in virtù del fatto che la tela era destinata all’Accademia delle Arti del Disegno che elesse per primo a titolo di padre e maestro proprio il genio toscano. Le dimensioni di questa tela (7,60 x 7 metri) sono effettivamente impegnative tanto che quando l’ho osservata montata nel mio studio mi sono un po’ spaventata. Poi è diventata una sfida. Va detto che ho lavorato per molti anni nel design e il mio maestro in questo settore, Giorgio Giugiaro, mi spinse fin da subito a confrontarmi con lavori di grandi dimensioni. Sono quindi in un certo senso abituata al grande formato che ho introdotto nella mia pittura ed è presente anche nella precedente mostra, quella tenuta alla Fondazione le Stelline di Milano”.
Analogie e differenze: la struttura dell’opera ricalca quella di Michelangelo, alla quale tuttavia toglie le lunette. Decide inoltre di trasformare il Cristo in un turbine di luce che lo nasconde e al tempo stesso ne esalta la forza espressiva. Come mai queste scelte?
“La tela è stata realizzata appositamente per essere collocata nello spazio espositivo della Galleria delle Arti del Disegno. Come vede l’istallazione ne riprende nella parte superiore la curvatura del soffitto. L’assenza delle lunette è legata alla conformazione della sala. Cristo così è in alto, in posizione dominante rispetto al resto del quadro, è il direttore d’orchestra che fa suonare l’armonia delle singole anime. Ma più che figura Cristo nella mia opera è energia, luce che abbaglia. Così come lo sentiamo nelle nostre vite. Da donna di fede non nascondo un certo imbarazzo, una sorta di difficoltà psicologica, nel raffigurare la sua immagine di uomo. Ecco dunque che è diventato luce che, nella sua intensità, abbaglia le stesse figure vicine, tra cui Maria.
Cosa ha voluto dirci con quella sua presenza affidata all’istallazione?
“La mia presenza è indicazione della dualità del quadro. L’istallazione è un richiamo al tragico mondo attuale che si staglia sull’opera che affonda le sue radici nella tela cinquecentesca di Michelangelo riproponendola in chiave attuale: vediamo infatti i nuovi santi che ho voluto introdurre (Gandhi e Madre Teresa di Calcutta), ritroviamo Dante. Io sono lì con la mano alzata a indicare il Cristo, a indicare che è quella la strada che dobbiamo percorrere, una strada che ci porta a riscoprire i valori autentici, anche in nome di quel momento finale che è il Giudizio divino. Ho lavorato a questo quadro durante la pandemia e la mascherina è un richiamo esplicito, che non può essere frainteso. Ciò che non potevo sapere e che tuttavia sembra essere annunciato in questa tela è questo amaro presente di guerra che oggi ci sta tormentando.
Compare nuovamente nel dipinto o meglio compare la sua testa decapitata che va a sostituire la figura svuotata di Michelangelo. Perché si è rappresentata così?
“La mia presenza nella tela (al di là di quella nell’istallazione) è una firma. Voglio esserci anche io, anche dopo la morte. Eccomi allora con il collo tagliato come la Medusa, decapitata ma presente, tenuta nella mano ferma di San Sebastiano”.
Il tema del quadro ci pone una lunga serie di interrogativi: l’umanità, il valore e il senso della vita, l’esistenza del divino fuori e dentro di noi, l’etica, la salvezza. Quali domande si è posta e quali risposte si è data durante questo lavoro?
“Questo quadro è stato un dialogo con Dio. È stato un lavoro impegnativo che mi ha fortemente attanagliato. Come dicevo prima quando è arrivata la tela ed è stata montata ho visto la grandezza del lavoro che mi accingevo a realizzare e questa immensità quasi mi spaventava. Poi ho iniziato a disegnare le figure, i singoli corpi. Un lavoro che è durato tre notti ma che ho fatto con viva passione. La fede mi ha aiutato: intelligenza e sensibilità sono un dono”.
È stata definita da Giorgetto Giugiaro pittrice dall’“espressionismo dinamico, dove il colore è predominante sul divenire della forma”. Com’è stato per lei dipingere tanti corpi? Dalla prospettiva dell’osservatore sembra che ci si trovi davanti davvero l’intera umanità rappresentata singolarmente, ognuno nel dramma proprio, nell’intimità di chi è giunto alla resa dei conti. Anche quei corpi così espressivi sembrano raccontarsi nei movimenti, nelle tensioni e nei colori.
“Sì, sono una pittrice espressionista e quest’opera è un’opera espressionista contemporanea che parla di cristianità. Dare vita a ogni persona, a ogni spirito, crearli in relazione tra loro è stata un’esperienza molto forte che è stata sicuramente anche ricerca interiore”.
Uno spazio particolare sembra avere in Vertigine la donna, una donna che è femminilità, senso di protezione, figura caritatevole e tanto altro ancora. È effettivamente un tema da lei sentito?
“Il tema della donna sì, lo è, non potrebbe non esserlo in questo momento storico. Come un altro tema importante è quello della globalizzazione qui rappresentato dall’importante numero di persone di etnie diverse tra cui donne con il burqa”.
E ora una domanda decisamente più leggera: quanto tempo ci è voluto per realizzare quest’opera?
“Ci sono voluti due anni e mezzo: è stato un periodo intenso e faticoso…”
Dove andrà Vertigine quando la mostra chiuderà?
“Forse all’estero ma questa è ancora una possibilità, non una certezza”.
Dove ha dipinto questa tela?
“Nel mio studio. Lavoro in un capannone di 500 metri quadri alto 10 metri”.
Uno spazio enorme! Possiamo quindi aspettarci per il futuro altre grandi tele?
“Sì, certamente. Io lavoro nel grande”.