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In carcere a Lucca Chet Baker poteva suonare solo due volte al giorno, massimo per 5 minuti

- Cultura
1 Giugno 2022

Paolo Lazzari

La Fiat Nuova 500 si incanala placida verso il rifornimento. Giornata torrida, manovella dei finestrini rigorosamente tutta abbassata. Fuori esplode il 31 luglio 1960. Siamo intorno alle quattro del pomeriggio e l’uomo appollaiato alla guida arriva da molto lontano. Oklahoma, precisamente. Chiede il pieno al benzinaio della Shell di San Concordio, uno dei quartieri più a ridosso delle mura di Lucca, mentre si riavvia il ciuffo con un lungo pettine afferrato dal cruscotto. Poi, da lì, estrae anche qualcos’altro. Quindi scende per usare il bagno. Il tizio del distributore non si fa pregare. Compone il numero della più vicina stazione dei carabinieri e si attacca al telefono: “Ho appena visto un cliente che si bucava con una siringa” e giù a snocciolare il numero di targa, il modello e il colore dell’auto. “Sì, adesso è chiuso nel bagno del distributore, sbrigatevi”.

Quando le forze dell’ordine arrivano, Chet Baker – il famoso trombettista – è stordito nel soffocante pertugio dotato di wc e lavandino. Da fuori gli intimano di aprire subito, ma lui non si regge in piedi. Così sfondano la porta a spallate, lo sollevano dal pavimento e mettono a verbale: “Infrazione dell’art. 729 del codice penale”. Che poi vuol dire abuso di sostanze stupefacenti. Palfium, nello specifico: un farmaco dal quale è diventato dipendente e che produce questo – desiderato – effetto collaterale. La macchina trabocca di piccole fiale di cristallo. Il processo viene istruito in fretta. Il 22 agosto Chet si trova nella pensione Santa Gemma di Tonfano, a Marina di Pietrasanta, quando la polizia arriva a prelevarlo.  “C’è un fondato pericolo di fuga”, dichiara il magistrato nell’ordinanza che dispone l’arresto.

Interrogato, Chet vuota il sacco. Racconta di essersi fatto prescrivere il Palfium da medici che, con eccessiva disinvoltura (o connivenza), si sono bevuti la sua storiella: “è l’unico analgesico che allevia il mio dolore al trigemino. Dopo quell’incidente stradale patisco le pene dell’inferno”. Baker confessa anche di essere stato in cura proprio a Lucca, alla clinica Santa Zita, per provare a disintossicarsi. Senza successo, a conti fatti: l’assuefazione ci ha preso affitto. In prima battuta il pubblico ministero chiede 7 anni, poi tramutati in una condanna di tre e infine ridotti a 16 mesi. I lucchesi, che si addensavano in mucchi di folla sotto la finestra dell’hotel Universo dove lui si metteva a cavalcioni per suonare, sono sconvolti.

Nella casa circondariale di San Giorgio la vita scorre lenta e priva di sussulti. A Chet, come a qualsiasi altro detenuto, non è consentito portare in cella oggetti personali. Solo che se togli ad un musicista il suo strumento, è come se gli amputassi una porzione del corpo, tranciando via un organo vitale. Baker avvizzisce, ma non demorde. I suoi avvocati sommergono il giudice di richieste e quello, alla fine, cede. “Potrà suonarla due volte al giorno, e non di più, per cinque minuti consecutivi”: è un’elemosina, ma Chet se la fa bastare. Impugnare di nuovo la tromba è una sutura per l’anima. La sua musica torna a fendere l’aria circostante e i lucchesi, adesso, la orecchiano dalle mura o si assiepano intorno al perimetro della struttura. A Natale Baker prova anche ad improvvisare un concerto, ma i secondini lo bloccano dopo pochi istanti.

L’uomo che esce dopo sedici mesi di detenzione è sicuramente diverso rispetto a quello che era entrato. Quello che però resta immutato, a distanza di sessant’anni da quell’estate, è sicuramente l’affetto di una città per un ospite illustre diventato in fretta amico prediletto.

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