– Paolo Lazzari –
Quarant’anni e non accusarli nemmeno un po’. Anzi, quell’emozione lì oggi pare amplificata. Perché si sono date il cambio generazioni intere, hanno ceduto il passo innumerevoli governi e la Nazionale ha fatto in tempo a sollevare due coppe del mondo, ma quello che i toscani provano per “Madonna che silenzio c’è stasera” resta intatto, potente. A socchiudere le palpebre sembra di poterli quasi toccare, Francesco Nuti e Maurizio Ponzi. Si aggirano per la Prato degli anni Ottanta perché Francesco – che si è smarcato dalla compagnia dei Giancattivi e adesso tenta il grande salto – gliel’ha spiegato chiaro: “Senti, te sei di Roma. Bisogna che tu venga qua a vivere la città per capirla davvero”.
Così inizia la storia di una pellicola che era partita senza pretese per poi sorprendersi film di culto. Eppure ci sarebbero tutti i presupposti per un colossale fiasco. Nuti e Ponzi si annusano e, inizialmente, non sembrano andarsi a genio. L’attore alza gli occhi al cielo quando legge i titoli dei film del regista, cicatrizzando le sue perplessità in un binomio che non lascia scampo: “Son strani”. Ponzi invece ridacchia scorrendo la proposta di sceneggiatura: la trova divertente, ma un po’ naif. La trama poi potrebbe sortire effetti antitetici: o benissimo o malissimo. Per fortuna il pubblico propende con decisione per spuntare la prima casella. Forse perché la surreale giornata vissuta da Francesco nel film, prima sgusciando via dall’ossessivo affetto materno per poi cercare lavoro nel distretto tessile – ritratto come teatro che produce ricchezza e mutilazioni – riflette in qualche modo una porzione delle nostre esistenze.
Nuti intride il racconto di elementi improbabili, ma lo sfondo resta autentico: la vita in una città di provincia – anche se molto diversa da quella che conosciamo oggi – le paturnie che ci affliggono, il lavoro da incastrare con i sogni, la speranza dell’amore – con quella telefonata di Maria, la ex, che irrompe proprio sul finale – che soffia ossigeno su fiammelle intiepidite. Tutti fattori vincenti, perché la gente empatizza con quello in cui si rivede.
Prato è un’attrice muta, eppure protagonista. Un affresco di Toscana che sfuma tra il divertente e il malinconico e che riesce a farci trasalire anche quattro decenni dopo. Il tempo si infila tra le cose e decide se diventare colla o spazio. In questo caso vale la prima. Sì, il destino avverso di cui si sono imbevute le giornate di Nuti alimenta commozione e romanticismo. Ma il film continua a pulsare a prescindere in una sorta di universo che scansa tempo e spazio: quello in cui ci ritroviamo tutti – o quantomeno i toscani – perché è abitato dalle cose che abbiamo in comune.