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“Mi volevano Herrera e il Napoli ma sono sempre rimasto al Pisa”. Intervista a Fabrizio Barontini

- Interviste, Pisa calcio, Primo piano, Sport
14 Luglio 2023

Guido Martinelli

Spesso lo ripeto anche su questa testata: il caso guida le nostre azioni. Dunque, per caso, un mio familiare ha avuto a che fare con un mito sportivo della mia infanzia: Fabrizio Barontini, di cui forse i più giovani e magari pure zero sportivi (le disgrazie non vengono mai da sole) potrebbero non sapere niente e allora urge presentarlo. Trattasi del calciatore col maggior numero di presenze nella storia centenaria del magico Pisa e di conseguenza non potevo non cercare di incontrarlo.

Non nascondo che, così facendo, temo un pochino di invadere il territorio di competenza di altri colleghi arneschi, ben più bravi di me nel trattare la materia, che spero di non avere prevaricato andando dal mitico mediano per una breve chiacchierata. D’altronde anch’io amo lo sport in toto e sono persino abbonato all’amato club neroazzurro, per cui mi fa piacere ogni tanto parlare dell’argomento, soprattutto con un atleta che, da infante, ammiravo un bel po’.

Prima di incontrarlo mi sono documentato e posso presentarlo urbi et orbi dicendo che Fabrizio Barontini è nato in quel di Cascina il 21/10/1941, quasi 82 anni fa, e nel ruolo di centrocampista-mediano ha indossato la casacca neroazzurra, dal 1959 al 1974, per ben 14 anni, giocando otto campionati in serie C, cinque in B e uno in A, disputando in toto 317 partite, due più del mitico capitano Piero Gonfiantini. Mi riceve molto gentilmente a casa sua, in quel di San Frediano a Settimo, e andiamo subito a bomba.

Signor Barontini, partiamo dall’inizio, ovvero da quando ha iniziato a giocare a calcio.
“Ho iniziato a quattordici anni qui, a San Frediano, che allora militava in Promozione”.

Ora, invece, la cose sono cambiate.
“Ora hanno un vivaio, e il calciatore di qui che ha fatto più carriera è stato Birindelli, il babbo del Samuele che ha giocato nel Pisa fino all’anno scorso, che negli anni Novanta è stato nella Juventus e in Nazionale. Da qui andò nelle giovanili dell’Empoli e poi ha spiccato il volo. Io iniziai qui nel 1955-56, se mi ricordo bene, poi andai a finire nel Rosignano Solvay perché l’allenatore del San Frediano era coetaneo dell’allenatore del Rosignano e gli parlò bene di me, così mi chiamarono. Con tutta sincerità devo dire che andai anche a fare una prova al Pisa con altri due del San Frediano. Il Pisa quell’anno era in Promozione e ci giocammo contro”.

Chi vinse?
“Qui vinse il Pisa 1-0 mentre all’Arena mi sembra che se ne prese 5…”.

“Il Rosignano in quale serie militava?
“Quarta serie, Eccellenza”

La D di ora…
“Sì. Era interregionale come la C2 quando c’era ancora. Insomma, dopo il provino col Pisa potevo andare a giocare con loro ma rifiutai perché gli amici di scuola tipo il Lucchesini, Romano Marinai, non erano contenti del settore giovanile del Pisa di quel tempo  e siccome sentii parlare bene del Rosignano andai a finire là per tre anni. L’allenatore del Rosignano, Arduino Romoli, poi, fu preso dal Pisa, in C, e lo seguii insieme a un altro ragazzo, Bulli, molto bravo tecnicamente, che andò a finire subito alla Spal in Serie A”.

Com’era il calcio all’epoca?
“Per me era molto più tecnico. Oggi è più atletico, più veloce, con tutto il rispetto, come dice il mio amico Roberto Gasparroni”.

La famosa “Ruspa”?
“Certo, siamo sempre in ottimi rapporti, ci vediamo spesso. Insomma, lui quando sente parlare dello stress dei giocatori di serie A  dice sempre: ‘Io li manderei alle cave di Uliveto a lavorare per vedere se gli viene lo stress’”.

Com’era la società del Pisa quando arrivò lei?
“Il presidente era l’ingegner Panichi, Leandro Sbrana era il classico, storico, segretario che ho trovato e lasciato. Lui era veramente anche un amico di famiglia. Mi trovavo bene in quel Pisa perché era molto curato tecnicamente, anche a livello giovanile. Ora vado a vedere qui a San Frediano i ragazzi che si allenano e non vedo che fanno gli esercizi con la forca, il muro, come facevamo noi, che non esistono più. Anche il palleggio con l’allenatore col destro e col sinistro non lo vedo più”

Vuol dire che non si cura più la tecnica?
“Poco, per non dire niente. Molta corsa, molta forza. E infatti sento spesso dire: ‘Guarda che fisico che ha!’. Ricordo Egisto Pandolfini, gran calciatore e ottimo scopritore di talenti dei miei tempi, che quando mio figlio giocava a Ponsacco venne a vedere uno che giocava lì e mi disse: ‘Mi hanno parlato bene di questo che ha un bel fisico forte’. Io gli risposi con rispetto: ‘Signor Egisto, se va al porto di Livorno sa quanti ne trova di fisici forti? In campo ci vuole altro’”.

Senta, come riusciste ad andare in serie B nel 1964-65?
“Con l’allenatore Umberto Pinardi si creò come una famiglia, come anche nell’anno che con Renato Lucchi riuscimmo a conquistare la Serie A”.

Nel 1967-68. Quali erano i pregi e i meriti di questi due allenatori vincenti?
“Erano allenatori completamente diversi. Pinardi molto più signorile, stile Juventus di allora, non di oggi. Lucchi era più espansivo, giocherellone, abbastanza superstizioso: se un venerdì si mangiava una cosa e la partita la domenica andava bene il venerdì dopo si rimangiava di nuovo quella pietanza. Era permissivo, dato che si potevano festeggiare i compleanni. Devo dire che mi sono trovato bene con tutti gli allenatori che ho avuto”.

Lei, in tutta la sua carriera, è stato propheta in patria perché ha militato come professionista sempre nella squadra della sua città, cosa molto insolita…
“Leandro Sbrana in un libro sul Pisa mi metteva tra i giocatori più importanti della storia del Pisa ed è tanta la soddisfazione di essere diventato un personaggio del Pisa essendo pisano, e di essere stato, come ha detto lei, profheta in patria, sfatando il famoso detto”.

È stato cercato da altre squadre durante quegli anni?
“Il Napoli mi cercò e quell’anno rammento che risposi così a chi me lo chiedeva: ‘Sì, ci andrò dopo che mi sposo, in viaggio di nozze’ Forse la battuta mi è costata qualcosa. Poi ci fu li mago Herrera che venne addirittura a parlare con me a Reggio Emilia, se mi ricordo bene, negli spogliatoi, ed ebbi con lui un discorso importante ma poi non se ne fece di nulla”.

Meglio per il Pisa dove ha battuto il record assoluto di presenze con 317 incontri disputati
“Forse 317 non è il numero esatto, forse ne mancano diverse perché alcuni dicono che sono di più e si sta cercando di risalire al numero esatto. Dovremmo essere vicini alle 330 partite”.

Com’era la grande Serie A del 1968-69?
“Era bella, avevo un gran rispetto per i centrocampisti di allora: De Sisti, Bulgarelli, Bedin, Fogli, Trapattoni, Pelagalli. Giocatori che adesso avrebbero il posto in Nazionale assicurato e pensare che qualcuno di loro e altri forti a volte non trovavano posto come titolari nelle loro squadre perché c’è n’erano altri ancora più forti”.

Perché erano così forti?
“Perché erano centrocampisti col cervello”.

Allora, possiamo affermare senza ombra di dubbio, che nel calcio dei suoi tempi c’era più tecnica e meno corsa?
“Certo. Una volta, un sabato, a Forte dei Marmi, Pinardi ci portò a vedere l’allenamento dell’Inter di Herrera. Vidi Herrera che chiamò Corso e Mazzola e gli buttò il pallone, gli fece fare lo stop di destro e per darla di sinistro e viceversa. A me venne detto: ‘Vuole insegnare a Corso e Mazzola a stoppare il pallone?’. Pinardi mi sentì e mi si avvicinò per dirmi: ‘Questo è l’allenamento per preparare le cose che faranno in campo domani’. E questa verità mi lasciò a bocca aperta”.

Il suo ricordo più bello della serie fu l’unico gol che fece contro la Sampdoria con cui vinceste quella partita?
“Giorni fa una signora mi chiamò perché dei bimbi del San Frediano mi volevano fare delle domande. E un bimbo mi domandò: ‘Ha fatto qualche gol?”. Io risposi: ‘Pochi, perché ero un centrocampista’”.

Ho letto che sono stati 19 complessivi in tutta la carriera…
“Sì, una ventina. Il gol più bello, mi ha chiesto sempre quel bimbo, quale fu? Io gli ho risposto così: ‘Quello alla Sampdoria, di testa, perché fu in Serie A, e alla fine si vinse. Che poi c’è una storia dietro, un incontro con l’allenatore dei doriani Fulvio Bernardini alla fine della partita. Mentre uscivo dal corridoio degli spogliatoi mi chiamò e io gli risposi: ‘Mi dica Mister”. Chiamò il portiere Battara, il difensore Vincenzi e altri due e gli disse: ‘Vi siete fatti fare goal di testa da questo!’. Io subito gli risposi: ‘Mi prende in giro o lo dice per mortificare gli altri?’. Così salutai e non dissi altro. Certo, se la poteva risparmiare quella battuta”.

La Sampdoria quell’anno si salvò mentre voi retrocedeste, perché?
<“Eravamo contati, 13-14 in tutto o quasi, disputammo tante partite senza cambi, s’arrivò in fondo che eravamo cotti”.

Non 25 come ai nostri giorni…
“Ora fanno due squadre”.

Insomma, retrocedeste in Serie B, e dopo provaste a risalire senza riuscirci
“No, le cose cominciarono a diventare sempre più difficili, Barontini e Gonfiantini cominciavano ad avere i loro anni e via discorrendo”.

Ho letto che Gonfiantini, classe 1937, ha giocato 27 anni fino a 45 anni forse perché era un libero e non correva tanto.
<“Devo chiamarlo Piero, un grande. Ci si sente con lui, Piaceri, Mascalaito e con Guglielmoni addirittura una settimana si e una no e ora mi ha promesso che scendeva fin qui a trovarmi. Con la ‘Ruspa’ che sta da queste parti ci si vede spesso e lui è sempre bello combattivo tanto che mi sta sempre a rinfacciare quella volta che poteva fare goal contro il Milan: ‘Mi levasti la palla perché volevi fare la rovesciata’. Tanti se ne sono andati: Gasperini, Breviglieri, Federici, Bressan, che però venne dopo, Joan- Via via chiamo Leda, la moglie di Sandro, e quando mi sente mi fa commuovere perché dice: ‘Sei sempre il solito gentile, come sarebbe contento Sandro di sentirti’. Gli portavo sempre le piantine perché io sono fissato con il giardino e l’orto, che tutti mi prendono in giro ‘vieni fuori da quella gabbia’, non vado al bar e passo il tempo così”.

Il calcio, oltre ad essere un luogo in cui si creano amicizie stupende ed eterne come le vostre, ha dei lati oscuri come le partite che si vendono e altre brutte storie.
“Quelle che sono venute fuori sono tutte vere e ce ne saranno tante che, invece, non sono venute fuori!”.

E riguardo a tante morti di calciatori forse dovute ai farmaci cosa mi sa dire?
>“Non ho preso più un medicinale da quando un calciatore venuto al Pisa mi disse che nella squadra precedente gli avevano dato una zolletta di zucchero dove c’era dentro un pasticca di simpamina o roba del genere per cui cominciò a correre un’ora prima che cominciasse la partita”.

Come ha scritto Ferruccio Mazzola in un suo libro proprio sulla “grande” Inter di Herrera…
“Gonfiantini, che prima di venire da noi giocò nella Fiorentina, dove sono morti diversi ragazzi in modo strano  si era un po’ impaurito e ha fatto delle visite e dei controlli  proprio ripensando a Saltutti, Ferrante e altri che se n’erano andati per malattie brutte e gli era venuta la tremarella. Ma a lui non è successo nulla”.

Voi, al Pisa, non prendevate nulla?
“Sentivo parlare solo di pappa reale, ma niente di più. Che poi non capisco che soddisfazione ha uno che viene aiutato col doping? Non viene fuori la dote naturale dell’individuo, è una cosa forzata”.

Se guarda indietro alla sua carriera ha dei rimpianti?
“No”.

Dopo il Pisa dove andò a giocare?
“Dopo il Pisa, tramite un amico, andai a giocare al Poggibonsi in quarta serie. Poi Emilio e Roberto Balestri m’iscrissero al corso allenatori che c’era a Pisa, alla Lanteriana. Così ho fatto un po’ di allenatore al Camaiore, a Piombino dove si vinse il campionato e dopo, a livello sportivo, successe un piccolo qui pro quo di cui non voglio parlare e così abbandonai…”.

Dopo aver appeso, come si dice, le scarpette al chiodo cosa ha fatto?
“Avevo un ufficio di assicurazioni che ai tempi della serie A curava mio padre, e mi occupai di quello. Dopo mi misi in società con il Posarelli all’Esanastri con cui siamo andati avanti per anni anche con Romano Marinai. Poi Romano si ritirò perché mise su un’edicola col figlio, se mi ricordo bene”.

I suoi figli hanno seguito un po’ le orme paterne?
“Il figlio più grande, che aveva le doti per diventare un calciatore, a Empoli il presidente Bini lo voleva a tutti i costi, smise di giocare. Quello più piccolo voleva imitare quello più grande e andò alla Marinese, poi alla Fiorentina, ha vinto il campionato italiano Allievi, Primavera, è stato convocato con la prima squadra quando Giorgi allenava la Fiorentina e con loro è stato pure all’estero. Poi è stato ad Arezzo, Spezia, e ora fa l’allenatore in Romagna lavorando allo stesso tempo in campo assicurativo”.

Consiglierebbe a un giovane di fare il calciatore?
“Diamine, il calciatore è uno sportivo e lo sport è bello. Ognuno deve sentire se è portato per qualcosa e se lo è deve seguire la propria inclinazione”.

Continuando a fare confronti tra ieri ed oggi, se ai suoi tempi un giornalista la incontrava per la strada e le faceva due domande lei rispondeva?
“Con i giornalisti sono sempre stato in buoni rapporti perché loro, per il lavoro che fanno, cercano sempre qualcosa da riportare sui giornali per il pubblico e perché, allora, non rispondere?”.

Adesso, pare che per fare due domande a giocatori sin dalla Serie C, occorra chiedere il permesso alle società. Cosa ne pensa?
“Sono direttive per me anomale. Basta che il giornalista riporti i discorsi  come sono avvenuti scrivendo la realtà e tutto fila liscio. Basta che il giocatore non sveli cose interne della società perché a quel punto bisogna prendere provvedimenti. Ma vietare di parlare ai giornalisti non la ritengo una cosa giusta”.

Cosa ne pensa  del fenomeno-calcio ai nostri giorni?
“C’è troppo calcio durante l’anno. Ci sono più sponsor, quindi più interessi”.

Si guadagna molto a certi livelli, adesso, nel calcio. Lei ha guadagnato abbastanza bene nella sua carriera?
“No, perché venivo considerato uno del posto che non aveva spese e non percepivo quindi come altri che magari non giocavano ma venivano da fuori. Io, una volta, lo dissi a un presidente: ‘Se i soldi che lei mi dá li do a un albergo o li metto in casa che differenza c’è per lei? Io, effettivamente, non ho guadagnato quello che avrei meritato di guadagnare”.

Anche se lei non ha avuto come presidente Romeo Anconetani, che ha guidato il Pisa dal 1978 al 1994, cosa mi sa dire di lui?
“Romeo era un mio grande estimatore e mi voleva tanto, tanto bene, e anche se non era della società del Pisa veniva a vedere le partite e passava in albergo a salutare prima dell’inizio quando io avevo sempre la barba lunga perché me la facevo il lunedì. Così, quando mi vedeva, mi diceva sempre: ‘Barontini non si può venire in un albergo con una barba così così’. Allora io gli rispondevo: ‘Romeo, non ho i soldi per pagarmi il barbiere’. Così lui tirava fuori 150-200 lire che prendevo e mi mettevo in saccoccia e gli dicevo: ‘Domani vado a farmi la barba’”.

Gli altri presidenti che ha avuto com’erano?
“Tutte brave persone. Qualcuno, magari, era un po’ presuntuoso e voleva farsi passare per un intenditore di calcio. Una volta un Presidente, di cui non faccio il nome, pace all‘anima sua, dissi: ‘Lei deve fare il presidente, ha un direttore sportivo, un allenatore e alle cose tecniche devono pensarci loro’”.

Cosa ne pensa dell’attuale società del Pisa?
“Personalmente non sono molto vicino e non so come stanno veramente le cose, però, per sentito dire dal mio nipote, tifoso che segue le partite del Pisa anche in trasferta, mi sembra che la società stia facendo bene. Tutti i giocatori, tranne pochi, sono di proprietà della società, e questo è un lato positivo, e non è più come negli anni passati. L’anno del secondo fallimento erano quasi tutti in prestito. Avere tutti questi giocatori lo trovo un lato molto positivo”.

E cosa pensa della fine poco brillante dell’ultimo campionato dei neroazzurri?
“Tanto rammarico”.

Da cosa sarà dipeso quella specie di crollo finale con due punti nelle ultime otto partite?”
“Bisogna viverle da dentro le vicende perché ipotizzare e basta non è giusto e forse solo chi è dentro conosce il vero motivo”.

Come mai in Italia, nel calcio, non si vince più come un tempo?
“Vedo che ragazzi dai 17 ai 22 anni in altre nazioni come Francia e Inghilterra sono titolari nelle squadre e addirittura qualcuno nelle nazionali mentre noi si fa fatica a inserirli, anche se Mancini ci sta provando in nazionale. Se la Federazione imponesse ad ogni società di Serie A di tenere almeno 3 under 20, per dire un numero e un’età, si permetterebbe ai giovani di mettersi in luce e crescere con beneficio anche per la nazionale. L’ultima Under 21 è fallita e l’allenatore è già stato esonerato e non so hanno già trovato il sostituto o meno. Fino a poco fa se ne parlava bene di quell’uomo, ora è andata male l’ultima partita con l’eliminazione dalle semifinali e l’allenatore è stato cacciato via. Bisogna avere pazienza”

Questo è il destino degli allenatori che, come dice quel tipo, sono condannati a morte che camminano.
“Sono legati ai risultati. Poche volte, direi mai, si sente dire che la società è retrocessa e l’allenatore ha lavorato bene”.

Si parla tanto dei moduli, qual è, per lei, quello vincente
“Non li posso sopportare questi discorsi sugli schemi. Quando sento dire 5 attaccanti o 3 difensori con tutte le variazioni durante la partita mi viene da ridere. Il calcio è improvvisazione, quando un allenatore sta in panchina col taccuino e continua a scrivere, a scrivere, ma cosa scrive? Quando il pallone deve andare a un compagno ci va se lui è smarcato e glielo posso dare perché se lui non si muove e non io non posso dargli la palla è tutto inutile e uno può scrivere quel che vuole”.

Non è un tatticista, allora qual è un allenatore degli attuali che a lei piace?
“Allenatori giovani bravi ce ne sono, basti pensare a De Zerbi che dal Sassuolo è andato all’estero. Quando si lavora in provincia si lavora meglio perché c’è più tranquillità, il difficile è quando si va nelle metropoli perché ci deve essere sempre il risultato. Bisogna valorizzare i giovani, sia allenatori che giocatori”.

Largo ai giovani allora,  e per concludere quale ultimo pensiero vuole lasciare sul calcio e sullo sport in genere?
“Il calcio è sempre stato, per me, lo sport principale per eccellenza. Bisogna avere la forza di farlo continuare a crescere e far divertire il pubblico perché il calcio va avanti se il pubblico va alle partite”.

Ringrazio il gentilissimo Barontini, ancora in forma smagliante nonostante gli anni incombenti, della chiacchierata che ci ha riportato indietro in un calcio, e direi anche in un mondo che non c’è più e di cui non può non venire una leggera nostalgia, ma il mondo va avanti diritto come un fuso e non resta che assecondarlo cercando di tenere presente alcuni suggerimenti provenienti da chi ha vissuto prima e ha, magari, un barlume di saggezza da distribuire in giro. Mai scordarci di quel che siamo stati perché lì c’è del buono.

Guido Martinelli

 

 Foto dall’Archivio dell’Associazione Cento

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Collaboratore

1 Commento
    Marco

    Ottima intervista, molto significativa e sincera. Complimenti al giornalista e naturalmente a Fabrizio Barontini, di cui non conoscevo la bellissima storia.

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