Quando aprirono il deposito, nel 1956, l’Italia si stava rialzando a fatica dai disastri della guerra e cominciava a vedere la luce in fondo al tunnel, anche se gli anni del boom economico erano ancora lontani. Nella cosiddetta Piana non c’era quasi nulla e lo stesso aeroporto di Peretola vedeva passare pochissimi aerei privati, solo per voli nazionali. Il disastro di lunedì 9 dicembre, al deposito Eni di Calenzano, ha spaventato tutta Firenze proprio perché, nel corso dei decenni, quella zona è cresciuta a dismisura a livello di insediamenti produttivi e di infrastrutture.
L’impianto fece il “salto di qualità” nel 1971, quando venne collegato con la raffineria di Livorno. Fu una precisa scelta strategica, cui a onor del vero non corrispose una lungimirante pianificazione dello sviluppo del territorio. Perché basta guardare una qualunque carta geografica, oggi, per rendersi conto dell’estrema pericolosità di un impianto così grande in una zona simile, a pochissima distanza dal più grande centro commerciale della Toscana (I Gigli), a due passi dalla linea ferroviaria, di due autostrade (A1 e A11) e del’aeroporto di Firenze. Tema sicurezza già discusso varie volte, sia a livello locale che in Regione. Ma fino a oggi non si è fatto nulla. O si è fatto troppo poco.
L’impianto di Calenzano è sottoposto alla “direttiva Seveso” per il rischio industriale. Ce ne sono 50 in tutto il resto del Paese sottoposti a rigidi controlli. La lista viene costantemente aggiornata grazie anche all’Arpat, con ispezioni previste ogni tre anni. Per quanto riguarda Calenzano i rischi erano considerati bassi, ma “con danni potenziali gravissimi e con conseguenze anche fuori dal perimetro dello stabilimento”.
“Purtroppo era in parte una tragedia annunciata – ha detto al Corriere della sera il sindaco di Calenzano, Giuseppe Carovani -. Era un’azienda a rischio di incidente rilevante ed era predisposto un piano di emergenza che abbiamo seguito. C’è però una situazione di vulnerabilità strutturale per la presenza di questo sito sul nostro territorio”.
Medicina Democratica quattro anni fa aveva lanciato un allarme: “Come prevedevamo già nell’ottobre 2020 – spiega Maurizio Marchi – è avvenuto un incidente rilevante a Calenzano nei depositi Eni”. Rischio che, come annunciato, avrebbe potuto coinvolgere “i Comuni di Calenzano, Sesto, Campi Bisenzio, con oltre 100 mila persone in emissioni tossiche”. È proprio questo il punto: dove è collocato l’impianto.
Ma torniamo alla tragedia che si è verificata (sino ad ora le vittime sono cinque). In un Paese che voglia dirsi civile lo sforzo per evitare morti sul lavoro non va mai ridotto di un millimetro. In Italia negli ultimi anni si è fatto tanto, in tal senso, ma ancora molto bisogna fare per aumentare la sicurezza. Le leggi ci sono e sono severe, questo sì, ma sono poche le risorse necessarie per le verifiche. E questo vanifica gli sforzi del legislatore.
Il disastro di Calenzano chiama in causa la politica anche per un altro aspetto: si deve urgentemente porre rimedio ai troppi errori fatti in passato sul governo del territorio. Ci vorranno anni e forse non sarà possibile risolvere tutti i guai prodotti nel tempo, ma da qualche parte bisognerà pur cominciare a sistemare le cose in questo Paese.