– Renato Sacchelli –
Una mattina dell’estate 1944 fui svegliato dal letto, dove dormivo con mio fratello Sergio, dal forte rumore dei passi di molte persone che transitavano sotto le finestre della mia casa, nell’antico rione del Ponticello di Seravezza. Cosa stava accadendo? Mi alzai e dopo poco scesi in strada seguendo il flusso di persone che si recava nella centrale piazza Carducci, dove si trova il grande monumento in marmo dedicato ai Caduti della Prima Guerra mondiale.
Arrivato in piazza vidi che dietro al monumento, su un muro accanto ad una macelleria era stato affisso un manifesto. Dovetti attendere un bel po’ prima di potermi avvicinare per leggerlo. Nel testo il comandante delle truppe tedesche di stanza in Versilia ordinava alla popolazione del Comune di Seravezza di lasciare le proprie abitazioni e di trasferirsi a Sala Baganza, in provincia di Parma. L’ordine di sfollamento fu accolto con incredibile dolore dalla popolazione, chiamata a raggiungere la suddetta località senza alcun mezzo di trasporto a disposizione, nonostante la distanza di circa 138 km. La prima cosa che pensai fu come avremmo potuto fare, con mia nonna molto anziana e che con estrema fatica camminava, a raggiungere la destinazione indicata. Con noi, inoltre, c’era anche una bambina piccola, di soli due anni, mia sorella.
Tutti eravamo sgomenti. Qualcuno suggerì di andare a parlare con il sindaco, che abitava in piazza. Poco dopo il primo cittadino si affacciò dalla finestra di casa, con la propria figlia accanto, ma non fu in grado di dire nulla. Capimmo che ognuno avrebbe dovuto pensare al proprio destino. Come altre famiglie anche la mia decise di cercare un rifugio nei dintorni di Seravezza. Ci spostammo in un metato vicino al monte Pelliccino, sopra al paese. In quel luogo vivemmo in condizioni disperate, ma non per molto tempo. Un ufficiale tedesco poco dopo ci disse che avremmo dovuto abbandonare il nostro rifugio, per raggiungere il campo profughi di Sala Baganza.
Mio padre, per non abbandonare la nostra terra, decise di spostarci in un altro rifugio, sempre nei dintorni. Raggiungemmo così Giustagnana, che si trovava esattamente sul lato opposto della montagna, sopra Seravezza. Non trovando un posto dove stare ci vedemmo costretti a sistemarci in chiesa, come molte altre persone disperate come noi. Ci stendemmo davanti all’unico altare rimasto libero, stendendo per terra una coperta dove ci adagiammo per riposare, dopo aver consumato alcune piccole patate bollite.
Una notte un uomo, sistemato ai piedi dell’altare principale, si mise ad urlare: a fatica gli adulti, compreso mio padre, riuscirono a calmarlo. L’indomani pregai i miei genitori di trovare un altro posto per rifugiarci con la nostra famiglia. Poco dopo ci spostammo in una piccola casetta in muratura adibita al piano terra a deposito di attrezzi agricoli, e al piano superiore con una stanzetta per dormire, con il pavimento di vecchie tavole di legno tarlate.
Durante la nostra permanenza a Giustagnana ogni giorno mi spostavo nei campi circostanti per cercare qualcosa da mangiare. A volte riuscivo a trovare dei frutti caduti per terra dagli alberi, oppure delle pannocchie di granturco. Un giorno mi spinsi a camminare fino alla ferrovia, tra Querceta e Pietrasanta. Notai un soldato tedesco, di età matura, di guardia vicino alla strada ferrata. Mi avvicinai per chiedergli un pezzo di pane, facendogli dei gesti poiché non conoscevo la sua lingua, salvo una parola, brot (pane). Lui capì, si allontanò e raggiunse una vicina tenda. Quando fece ritorno mi consegnò un grosso pane scuro di forma rettangolare. Questo gesto mi riempì di felicità, così lo ringraziai ripetutamente e feci ritorno a Giustagnana.
Non vedevo l’ora di consegnare quel pane ai miei genitori, per farlo mangiare, oltre a loro, ai miei fratelli Sergio e Aldo, a mia sorellina Renata e a nonna Marianna, vedova e molto anziana e con una caviglia gonfia che la faceva zoppicare. Quando arrivai al rifugio feci l’amara scoperta: il pane che il tedesco mi aveva donato era tutto pieno di muffa e quindi non mangiabile. Fu una profonda delusione.
Questo ricordo non l’ho mai riportato nei tanti racconti di guerra che ho scritto nel corso degli anni. Forse perché, inconsciamente, lo avevo rimosso, tanta era stata la mia amarezza. A distanza di tanto tempo mi chiedo con quale coraggio quel soldato abbia potuto dare un pane completamente ammuffito a chi, disperatamente, gli aveva chiesto da mangiare. Possibile che non se ne fosse accorto? Un gesto di malvagità che non ho mai compreso né dimenticato.
Renato Sacchelli