Il tacchino, come lo chiama il gigante del giornalismo televisivo pisano, ci regala la serenità per affrontare la trasferta calabra con un Brescia rabberciato che ha battuto la nostra inseguitrice.
Partiamo da Milano centrale quando la gente della notte che fa lavori strani torna a casa. La tosse mi perseguita nel sonno da diversi giorni. Arrivo stanco all’inizio della partita spartiacque.
Come fantastichiamo da tempo, calendari alla mano, la trasferta della verità è questa. La visita alla distilleria del liquore locale (Jefferson) salta per incapacità organizzative. Non esagero con le polpette alla nduja di Sasà, contrariamente ai miei commensali che quattro minuti di orologio dopo ingurgitano anche delle zeppole alla crema in un bar che sembra viennese in un contesto che non lo sembra. Io niente, resisto.
Il benvenuto ce lo grida in faccia un ragazzo che sfreccia in bicicletta come nel Sorpasso di Risi (1962): “Forza Livornoooooooo”. Non ce ne frega niente e ridiamo per la scena surreale. Rimangiano la nduja. Loro. I tifosi del Cosenza fuori dai bar ci augurano di vincere. Odiano la proprietà e vogliono che venda. Strofinii bassi e mani nelle tasche, sorridiamo. Sparano petardi fragorosi quando il Pisa passeggia senza soffrire.
Il gol di Moreo ricorda una meta del Sei Nazioni di rugby. La pigia in porta il popolo giunto ad occupare il solito settore ospiti vergognoso. Tourè spacca la porta e Angori disegna il tre a zero.
Walkin’ on a dream.
Tornando in aereo dormo e la hostess mi “fracassa” un ginocchio con il carrello delle vivande. Sono stanco come se avessi giocato ma ilare e felice.
Dispiace per Cosenza che vive le follie del calcio moderno che permette di partecipare a chi non può e rende ostaggio dei propri interessi la città che pensa di aver comprato.
Bona Ugo, ci si vede all’Arena, è fat… Non lo scrivo perché non bisogna.
Francesco Fasulo
