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Il racconto di Divo Stagi (96 anni): “Così sono sopravvissuto al nazismo”

- Cultura
9 Gennaio 2020

Paolo Lazzari

“Mai più gli orrori del passato”. Mentre ripercorre quel giorno di agosto di 75 anni fa la voce si rompe in più punti e gli occhi diventano lucidi, acquosi. Una vita intera non è sufficiente per archiviare una sofferenza inaudita. Oggi Divo Stagi è un anziano signore di 96 anni, ma all’epoca dei fatti, di anni, ne aveva soltanto venti. È il 20 agosto del 1944 quando i nazisti compiono alcuni rastrellamenti mirati nella provincia di Lucca: quel momento, impigliato nel cuore del secondo conflitto mondiale, rischia di essere il giorno sfortunato di Divo. Sicuramente lo diventa per i molti – circa quarantacinque – che vengono strappati dalle loro famiglie per essere radunati nella Pia Casa di Lucca, dentro le mura, entrando da Porta Elisa. Un luogo emblematico e cruciale, teatro – oggi, 9 gennaio – dell’apposizione di una pietra di inciampo da parte dell’artista tedesco Gunter Demning, per non dimenticare e per tramandare la memoria.

“Era mattina presto – il toccante ricordo – quando tutto precipitò. In quel momento non potevo sapere che sarei sopravvissuto per miracolo”. Divo riesce ancora a raccontare con dovizia di particolari quello che successe. “Avevo soltanto vent’anni. Ci vennero a prendere nelle nostre case e ci portarono qui, eravamo circa in quarantacinque, tra i venti e i quarant’anni. Io rimasi solo due giorni, ma furono abbastanza per assistere all’orrore”. Orrore che fa rima con esecuzioni: “Ci contavano in gruppi di cinque e chi veniva chiamato faceva un passo avanti: gli ultimi due che restavano ogni giorno venivano fucilati in questo stesso cortile (indica il chiostro della Pia Casa, ndr). Eravamo considerati renitenti di leva, perché ci rifiutavamo di combattere per la sedicente Repubblica di Salò, a fianco dei tedeschi, contro gli italiani”.

Stagi ricorda come, uno tra i pochissimi, riuscì a salvarsi dalla sorte che aveva in serbo per lui deportazione, lavoro forzato e fucilazione. “La zona della stazione era appena stata bombardata – affonda la mente nelle tasche della memoria – e ci obbligarono ad andare a tappare le buche causate dagli ordigni. Ad un certo punto vidi un buco nella siepe di biancospino che costeggiava la stazione: mi ci infilai, anche se faceva malissimo. Pungendomi ovunque riuscii, quasi svenuto, ad andare dall’altra parte. Da lì scappai verso casa, occupata in parte dai nazisti: passando dal retro bussai con un segnale per farmi riconoscere. Entrai, mi curarono e lavarono, poi scappai sui monti pisani”. Peggior sorte toccò al suo migliore amico: “Gli dissi di rimanere nascosto, di non muoversi. Non volle ascoltarmi, uscì dai rifugi e dopo poco i nazisti lo trovarono e lo uccisero”.

Basta, gli viene chiesto, una soglia d’inciampo per mettersi in pari con il passato? “Sicuramente – osserva – è un modo per tramandare ai posteri un messaggio”.

Paolo Lazzari

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