– Renato Sacchelli –
Ho ancora vivi nel cuore i ricordi di quel tragico giorno dell’estate 1944 in cui i tedeschi imposero ai seravezzini l’ordine di sfollare a Sala Baganza (Parma). C’era una grandissima confusione nelle vie di Seravezza e in particolare in piazza Carducci, dove sul muro a fianco della macelleria di Adolfo Lombardi, dirimpetto al monumento ai Caduti, era stato affisso il manifesto che conteneva l’ordine. Seravezza in quell’estate del 1944 era piena di sfollati, quasi tutti i fondi anche senza servizi igienici e pavimentazione, erano quasi tutti occupati.
Andai anch’io a leggere quel manifesto. Ricordo che c’era una lunga fila di persone davanti a me, dovetti aspettare un po’ prima di poterlo leggere. Rimasi senza parole, non riuscivo a comprendere come la mia famiglia potesse raggiungere Sala Baganza, località a molti sconosciuta, in quanto avevo la nonna materna anziana e con una caviglia gonfia, da sempre trascurata, che la faceva zoppicare, e mia sorella piccola non aveva ancora due anni. Molto preoccupato per la nonna, mi venne alla mente un pensiero atroce: pensai alla morte come una liberazione dai tristi eventi cui sarebbe andata incontro. Questo mio brutto pensiero lo manifestai anche a lei. “Nonna”, le dissi , “con tutto quello che ci aspetta sarebbe meglio morire, sì, meglio vedervi morta che continuare a soffrire”. Ebbi il coraggio di dire queste brutte parole, che per anni mi hanno fatto piangere dal rimorso. Purtroppo non mi vennero in mente parole di conforto e di speranza.
La disperazione si leggeva sul volto di tutti i miei paesani e anche di coloro che vivevano sui monti sovrastanti il capoluogo seravezzino, dove si erano rifugiati dei fortemarmini, ai quali i tedeschi avevano imposto lo sfollamento il 30 giugno 1944. Anche chi viveva sui monti, compresi gli sfollati, scese a Seravezza per leggere il manifesto. La maggiore parte della popolazione non sapeva cosa fare. Ci fu qualcuno che disse: “Andiamo a sentire Gino Polidori”. Rimasto cieco nella guerra 1915/1918, presidente della sezione di Seravezza degli invalidi e mutilati fin dalla sua costituzione (1919), sindaco di Seravezza dal 1923 al 1926, Polidori era stato nominato podestà di Seravezza nel settembre 1934. Lo ricordo che, con accanto la sua giovane figlia, ascoltava tutti con molta attenzione. Pur comprendendo i disagi che la popolazione di Seravezza doveva affrontare non seppe suggerire alcunché per evitare lo sfollamento; non ci restava, dunque, che obbedire a tale ordine. Intanto la fame ed altre sofferenze rendevano sempre più faticosa la vita. Soltanto chi l’ha sofferta può capirmi. Ti senti morire, ma continui a vivere, ti senti sfinito ma il tuo cuore continua a battere. Ecco cosa si prova. Anche la Carità, una delle virtù teologali (l’amore a Dio come bene supremo e al prossimo per amore di Dio) negli anni della guerra era scomparsa. Ognuno aveva i suoi problemi da risolvere quotidianamente e non poteva pensare a quelli degli altri.
La mia famiglia si rifugiò in un metato tra il Pelliccino e il colle, di proprietà dei miei zii. Lì vicina c’era una grossa buca scavata in una roccia del monte dove in passato veniva estratto il quarzo. A poca distanza avevamo la sorgente di acqua che tuttora alimenta la fontana di Riomagno. L’acqua era era l’unico bene primario di cui si disponeva in abbondanza. Dormivamo su un mucchio di rusco, idoneo per preparare la stalla delle pecore, sul quale si stendeva un grande materasso che avevamo portato fin lassù dalla nostra casa del Ponticello. Non passò molto tempo e fummo costretti a lasciare questo rifugio. Avvenne quando una mattina un ufficiale tedesco, seguito da alcuni soldati, parlando la nostra lingua in modo abbastanza comprensibile ci disse che dovevamo andare via subito perché, entro pochi giorni, ci sarebbero stati i primi combattimenti con gli americani che si stavano avvicinando. Finimmo così a Giustagnana, dove trascorsi i giorni più tristi e dolorosi della mia adolescenza.
Alfieri Tessa, ex partigiano caposquadra, nel suoi libro “Il fucile legato con una corda” ha parlato di sua sorella, che il 21 aprile 1945, a bordo di un’autoambulanza americana fu trasportata, accompagnata dai suoi genitori, da Ruosina dov’era sfollata all’ospedale di Lucca, per essere curata essendo affetta da un forte deperimento causato dalla mancanza di cibo. Quando i genitori, a piedi, attraversando i monti raggiunsero Lucca per visitare la loro figlia, non fecero in tempo a rivederla ancora viva: era morta due giorni prima del loro arrivo. Non videro neppure il corpo, seppellito nel cimitero di S.Anna di Lucca. Il decesso di questa sfortunata ragazza avvenne quando iniziò l’offensiva finale alleata, che si concluse con lo sfondamento della linea Gotica.
Renato Sacchelli