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Nedo Sonetti, il fascino amaro della provincia del pallone

- Sport
14 Dicembre 2020

Paolo Lazzari

Oggi che di anni ne ha quasi ottanta, lui non si guarda indietro con rimorso. Gli scherzi del tempo lavorano un viso imponente, piazzato su una corporatura altrettanto imperiosa: segni di riconoscimento che hanno contribuito a fare di Nedo Sonetti il prototipo dell’allenatore burbero, perennemente accigliato, eppure capace di trasformarsi in un padre per centinaia di calciatori. Gli occhi forse iniziano a diventare acquosi, ma niente scalfisce la passione per un mondo che, tuttavia, è diventato una bestia strana, così diversa rispetto a quella che aveva annusato ed accarezzato lui, per lunghi anni.

Piombino è il luogo di nascita, ma la sua sarà una vita contrassegnata dalle stimmate del gitano. Rimanendo in Italia, s’intende. Direttore d’orchestra di un profluvio di club (alla fine saranno 27, l’ultimo il Pavia, nel 2015), Nedo si sente già allenatore dentro mentre gioca da stopper per la Reggina. Là da dietro, con tutto il campo che si estende a perdita d’occhio, ha la visione completa di come si articola la faccenda. Rimugina, indirizza, appunta e concretizza. “Sapevo già allora – ha dichiarato in un’intervista di qualche anno fa – che avrei fatto l’allenatore. Il problema è che a 40 anni, benché avessi già vinto quattro campionati, ero ancora nel bel mezzo della gavetta”.

Sì perché la vita di provincia – quella che nel suo incipit suggerisce Viareggio, Casertana, Spezia e Cosenza in una sequenza che assomiglia ad un flusso di coscienza – s’impegna ad elargire a casaccio dosi di fascino romantico e bocconi d’amarezza. Ti sembra sempre di essere lì per spiccare il salto, poi è come se rimanessi con i piedi piantati per terra, avvinghiato da una qualche forza centripeta.

Eppure, Sonetti, le sue grandi occasioni per sbocciare anche nelle metropoli del calcio se le costruisce. “L’Inter di Pellegrini – ha dichiarato – mi cercò nel 1987. Poi mi chiamò Berlusconi, quando andavo a mille con l’Atalanta: mi volle parlare per capire se potevo andare al Milan. Quei treni grossi sono passati senza fermarsi, ma io anche allenando in provincia non mi sono mai sentito un tecnico di secondo piano. Mi sono tolto parecchie soddisfazioni e penso di avere insegnato il mestiere a più di uno”.

Del resto pare essere proprio questa la dimensione che collima in modo esatto con le fluttuanti imprese di Nedo. I suoi maggiori successi sono legati al periodo all’Atalanta, ma pur consapevole di essere stato appena sul punto di imboccare le porte scorrevoli del successo, negli anni successivi accetta compiaciuto una quantità di sfide difficili che riguardano, per lo più, la conduzione verso la salvezza di piccoli club che danzano sull’orlo della deriva.

Quel gusto indisponente che ti rimane attaccato al palato, quando contempli dal basso il baluginio del potere, si manifesta in tante forme. Una delle più evidenti è la sudditanza: chi arbitra ne è carico, anche se prova a dire di no. “Lo svantaggio maggiore di allenare in provincia – confessava ancora Nedo – è stato proprio questo. Se Cagni faceva fallo non era la stessa cosa di quando Baresi buttava giù in area un attaccante della Sambenedettese. Questa è una brutta malattia che temo non scomparirà mai”.

Uomo che ha sempre coltivato passioni viscerali, tenendo fede al sanguigno spirito dei toscani, Sonetti ha sempre intrattenuto rapporti intensi con i suoi presidenti. Con Zoboletti, ai tempi della Samb, fu un autentico idillio. Non andò male nemmeno a Bergamo, con Bortolotti. La sua lunga traversata è punteggiata però anche da personaggi focosi come Cellino e Zamparini.

Il suo carattere, certo, non è mai stato da meno. Spesso incandescente, probabilmente sospinto dalla vena che pulsa per le sue origini, Nedo non le ha mai mandate a dire, specie ai giornalisti. Una ruvidità autentica, altro tratto peculiare dell’uomo di paese, che probabilmente non lo ha aiutato a scalare verso l’Olimpo del calcio. Eppure a lui non è mai interessato. Le manipolazioni sono roba per chi non ha fegato. La verità, anche se fa male, prego. Metterci la faccia, sempre.

Così, a quasi ottant’anni, voltarsi per soppesare quello che è stato è un esercizio naturale. Quello strano sapore a questo punto non se ne andrà, ma la bellezza collaterale di aver vissuto ed insegnato calcio in giro per tutta l’Italia, quella, coprirà sempre ogni cosa.

Nedo Sonetti con Zoboletti

 

Foto in alto: Quotidiano di Puglia. In basso: Riviera Oggi

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