– Renato Sacchelli –
Impazienti, per la fame che sentivano, i quattro ragazzi della famiglia Servi, seduti intorno alla tavola della cucina apparecchiata con rituale amore, aspettavano che la loro mamma mettesse nei piatti la minestra, che anche in quel giorno di guerra era riuscita a preparare, nonostante le quotidiane difficoltà dovute al razionamento dei generi alimentari in vigore da anni. Eravamo quasi alla vigilia dell’otto settembre 1943, il giorno dell’armistizio e della breve illusione della fine del conflitto, che invece continuò per oltre un anno e mezzo su gran parte del territorio nazionale, causando innumerevoli morti e feriti, nonché immensi cumuli di macerie.
Scottavano, sotto il sole caldo e stagnante di fine agosto, i tetti delle case di Pisa. Sull’Arno, ancora d’argento, alcun tratti della riva erano attrezzati con cabine e ombrelloni dai colori variopinti; gruppi di bagnanti trovavano refrigerio alla calura tuffandosi nelle acque allora limpide e piene di pesci, che rendevano più sopportabile la fame a coloro che pescavano. Nell’importante nodo ferroviario pisano continuava il movimento dei convogli carichi di munizioni e delle tradotte dei militari. L’espressione dei loro volti era cupa e i loro animi ormai rassegnati alla sconfitta, sempre più evidente dopo lo sbarco in Sicilia dei soldati anglo americani.
I quattro fratelli Servi, in giro in città, avevano sentito dire che Pisa sarebbe stata dichiarata “città aperta”, senza sapere di preciso cosa significasse. Pensavano, anzi sarebbe meglio dire speravano, che la città non sarebbe stata bombardata dagli aerei nemici e che gli opposti eserciti in lotta tra loro non avrebbero mai combattuto all’ombra della Torre.
Quando nell’aria si diffuse il suono agghiacciante delle sirene, che annunciavano l’arrivo sulla città di formazioni di aerei noti come fortezze volanti, i fratelli Servi a differenza della loro mamma, subito in preda all’angoscia, continuavano a chiederle con insistenza: “È cotta? Quanto ci vuole ancora?”. Intanto il rombo dei motori degli aerei si sentiva sempre più forte, fino al momento in cui si udirono anche i primi sibili delle bombe sganciate sull’abitato, seguiti dall’esplosione terrificante per il loro impatto a terra.
“Dio mio! Dio mio!”, gridava la mamma disperata, abbracciata ai suoi figli, che immediatamente si erano aggrappati a lei per proteggerla coi loro corpi, scossi dallo spostamento d’aria provocato dalle continue deflagrazioni. I ragazzi tentavano di rincuorarla, anche se erano arrivati a pensare, ad eccezione di uno solo di essi, che aveva assunto un atteggiamento di sfida, che sarebbero morti tutti.
Settanta aerei americani, a ondate successive, fecero cadere micidiali bombe ad alto potenziale, su tutti i quartieri di Pisa, in particolare nella zona della ferrovia, la cui stazione fu completamente rasa al suolo, e in quella di Porta a Mare e delle aree limitrofe.
Sull’altare della chiesetta annessa al convento di clausura dell’Ordine Domenicano, all’inizio di Corso Italia (a due passi da piazza Vittorio Emanuele II), da alcuni giorni era stato solennemente esposto l’Ostensorio per l’adorazione.
La tradizionale serenità del convento, pur rattristata dalla guerra, fu sconvolta dall’improvvisa ed inaspettata azione aerea nemica. “Presto al rifugio, via, via…”, gridava la madre superiora alle suore. Non tutte però le obbedirono. Una si ricordò del corpo di Cristo rimasto sull’altare. “Devo salvarlo, devo farlo”, mormorava dentro di sé. E in pochi minuti raggiunse l’altare per afferrare l’Ostensorio. Nel momento in cui le sue sorelle raggiungevano in fretta e furia il rifugio, proprio nell’attimo in cui era entrata nella chiesina e aveva preso dall’altare l’Ostensorio, stringendolo forte con le mani al petto, una bomba esplosa nelle immediate vicinanze fece crollare l’edificio sacro. Caduta in ginocchio, piegata su se stessa per meglio proteggere il corpo di Cristo, la suora fu sommersa dalle macerie. In quella posizione fu trovata senza vita dalle squadre di soccorso. Serrato nelle sue mani, come in una morsa, l’Ostensorio era rimasto intatto.
Il violento bombardamento aereo secondo la coscienza degli uomini provocò la morte di circa seimila persone, anche se i dati ufficiali parlarono di millenovecento vittime e molti cadaveri irriconoscibili. Di molte persone rimasero soltanto poche ossa e brandelli di carne.
“Chissà quanti esseri umani sono deceduti in questo modo atroce. Messi nei sacchi come noi stiamo facendo, chi potrà mai accertarlo? I sacchi vengono pesati: trenta-trentacinque chilogrammi è il peso equivalente al corpo di una persona così tragicamente perita”. Ecco la risposta che fu data al militare del Genio Marino Lorenzoni, nativo di Arni (Lucca), alle domande che aveva rivolto ad alcuni militi dell’ANPA (Associazione Nazionale Prevenzione Antincendi).
Il Lorenzoni aveva partecipato al pietoso recupero dei corpi rimasti schiacciati sotto le macerie ed ai lavori per la riattivazione della rete ferroviaria. Un giorno, mentre era impegnato in alcuni lavori, si accorse che una grossa pianta di un fico vicina ai binari, sulla quale era salito qualche giorno prima per nutrirsi dei suoi saporosi frutti, era stata sradicata da una bomba esplosa nelle vicinanze. La violenza della deflagrazione aveva fatto volare l’albero sulla terrazza di una casa vicina alla ferrovia.
Lo scenario in cui si muovevano gli uomini impegnati nei soccorsi e nel recupero dei corpi dalla macerie era apocalittico: rovine fumanti e innumerevoli corpi senza vita furono distesi temporaneamente nello spiazzo antistante l’antico cimitero di via Pietrasantina, in attesa della sepoltura.
Un ragazzo che ogni mattina da Arena Metato portava il latte a casa di alcune clienti residenti a Pisa, rimase inorridito nel vedere la grande distesa di morti adagiati uno accanto all’altro. Me lo raccontò lui stesso, ormai in età avanzata, poco tempo fa. Nonostante fossero passati decenni la vista di quell’immane tragedia umana, causata dal bombardamento sulla città di Pisa del 31 agosto 1943, era rimasta scolpita nei suoi occhi. E nella memoria di tutta la città.
Ciò che ho scritto sulla morte della suora, corrisponde esattamente a quanto mi raccontò don Giorgio Servi (uno dei quattro fratelli menzionati nel racconto).
Il sacerdote mi disse anche che non riusciva a comprendere come l’estremo sacrificio della sorella per salvare l’Ostensorio potesse essere finito nel dimenticatoio, nonostante l’alto valore di fede espresso con simile gesto.
– Questo articolo è stato pubblicato su Vita Nova (notiziario della diocesi di Pisa) del 3 settembre 2017