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L’eterno Ciccio Tavano: se la pensione può attendere

- Sport
14 Agosto 2021

Paolo Lazzari

Quarantadue anni, ma su nessuno dei pensieri che affollano la mente c’è inciso sopra Ok, ora basta davvero. Ciccio Tavano si è scordato di smettere di giocare a calcio e forse, a conti fatti, va benissimo così. Sapete, non è proprio la stessa storia che ti propinano per i portieri: quelli faticheranno anche, certo, ma mica puoi tessere paragoni vacillanti con i giocatori di movimento. Due anni dopo i quaranta è il periodo giusto per continuare ad abbeverare la tua voglia di far girare il pallone. La scelta di Ponsacco, dopo un anno a Prato, significa continuare a farlo ancora in serie D, dove le difese si stringono quando lo affrontano, i colpi inferti alla sfera sono meno nobili e i rimborsi spesa rappresentano la regola per pagarti lo stipendio.

Francesco Tavano da Caserta, per tutti solo e soltanto Ciccio, è ormai da considerarsi un toscano d’adozione. Del resto, ha passato più tempo ad arabescare traiettorie implausibili su questi campi, che altrove. Esordisce nel Pisa a poco più di vent’anni, prima di consolidarsi alla Rondinella. Il vero balzo in avanti però si chiama Empoli. Qui, con Maccarone, forma un duo inesorabile, capace come pochi di prendere a picconate le certezze di grana grossa delle retroguardie altrui. In maglia azzurra, Tavano, vive cinque anni consecutivi di autentico splendore. Accanto o proprio dietro alla prima punta, sa sempre come muoversi. Il passo è cadenzato, ma il pallone non lo perde mica mai. Come tutti i calciatori di genio, intravede pertugi là dove i più scorgono staccionate invalicabili. Assist al ritmo di un distributore di condom per teenager in piena eruzione ormonale. Gol che dribblano la banalità. Giocate talvolta anche fini a sé stesse, concepite per il sollazzo proprio e del pubblico. Abbastanza per convincere Marcello Lippi che, quel brevilineo che sa dissolvere il pallone di fronte agli avversari, deve essere convocato per i mondiali del 2006. La fortuna tuttavia sa essere una prostituta che ammicca solo quando piace a lei: elargisce e chiede in cambio. L’infortunio poco prima di partire per la spedizione vittoriosa ingolfa il fiato e spalma un peso che crivella il colpo. “Potevo essere campione del mondo – dichiarerà Ciccio – e non nascondo che sia stata una delle più grandi delusione della mia vita. Ma non mi sono mai arreso”.

Eppure la salita non è ancora terminata. Lo chiama il Valencia, ma al Mestalla non lo vedono quasi mai. Allora va a Roma, sponda giallorossa, ma non riesce a predicare il suo calcio composto di vezzi efficaci, un ossimoro che altrove aveva funzionato. Per ritrovarsi, per rinvenire quei colpi solo apparentemente dissipati, occorre intridere di nuovo i polmoni dell’aria buona che si respira in Toscana. Il ritorno ad un’età aurea collima con il bordo frastagliato della costa livornese. In amaranto Ciccio ricostruisce pienamente la sua credibilità, solleticando i palati labronici con colpi pittoreschi eppure terribilmente concreti, come sempre. Un altro giro di giostra ad Empoli è quel che ci vuole per dare un senso di compiutezza alla storia che fa il giro e si riannoda. Anche qui gol e assist vengono elargiti con prodigalità. Il passaggio ad Avellino segna un allontanamento soltanto temporaneo da quelle che ormai sono diventate le sue terre. Carrara, Prato e ora Ponsacco. La Toscana incisa nell’anima. Tanto calcio ancora da insegnare nelle categorie più autentiche. La pensione può attendere, per il momento.

Lapresse (ilGiornale.it)

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