– Ilaria Clara Urciuoli –
Due sale, cinque statue, cinque cammei, qualche affresco: i numeri della mostra “A tempo di danza. In armonia, grazia e bellezza” ricalcano le dimensioni del luogo dove l’esposizione si tiene, Vetulonia. Borgo di poche case, affacciato sulla realtà contadina di una Maremma sorta dove un tempo si trovava il lago Prile, oggi questo paesino tradisce l’importanza avuta in passato quando la città era tra le più ricche e potenti dell’Etruria e controllava le riserve metallifere delle vicine colline e dell’isola d’Elba. A strappare alla rovina del tempo le tracce di quell’epoca d’oro c’è un’area archeologica ed un museo intitolato a Isidoro Falchi, medico che qui effettuò ricerche e scavi.
È proprio all’interno del Museo Civico Archeologico che è ospitata fino al 6 novembre la mostra curata da Simona Rafanelli, direttrice del museo, e che, a dispetto dei numeri piccoli, si rivela interessante nella sua intensità: ad essere esposte troviamo infatti alcune opere mai uscite dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN) come la danzatrice dalla mano alzata appartenente al gruppo scultoreo composto da 5 statue bronzee del I secolo a.C. provenienti dalla Villa dei Papiri di Ercolano, dove dividevano il peristilio con altre 60 sculture.
Una bellezza eterea e senza tempo, immobile in un gesto che allude al movimento ma che contrasta con la staticità del corpo vestito con gusto prettamente ellenico (la capigliatura alla greca e, indosso, un peplo dorico ben fermo nelle sue pieghe), questa fanciulla risalta per il suo colore scuro, figlio di un restauro di epoca borbonica come forse anche il colore degli occhi, blu, che spiccano su quella carnagione che originariamente doveva essere dorata. A dialogare con lei un’opera dello scultore della bellezza per eccellenza, Antonio Canova, di cui quest’anno si celebra il bicentenario dalla morte. A pochi metri dalla statua romana troviamo infatti il gesso della “Danzatrice con mani sui fianchi”, la cui delicatezza è tanto legata alla materia estremamente corruttibile quanto alla grazia vibrante del suo profilo (oltre il quale troviamo Joséphine de Beauharnais, prima moglie di Napoleone) e del suo corpo svelato attraverso i leggeri panneggi della veste.
Se la prima sala è dedicata alla danza, la seconda ha come suo nucleo la bellezza grazie alla presenza di due Veneri: la prima, che domina la scena occupando il centro della stanza, è una copia in marmo greco del I sec. d.C. di un bronzo andato perduto e rientra tra le sculture della collezione Farnese. Accovacciata nell’atto di lavarsi, della Venere colpisce a un tempo l’ossatura tutt’altro che esile e la delicatezza e leggiadria del volto contornato dai boccoli, come anche la particolare posa che la rende donna prima ancora che dea. Accanto a questa un’altra opera del Canova, il gesso della “Venere italica” che il maestro scolpì per le Gallerie degli Uffizi che avevano perso la “Venere de’ Medici”, portata nel 1802 nella Francia di Napoleone (per poi ritornare a casa nel 1816). Alla richiesta di realizzarne una copia Canova si oppose: oltre al poco amore per le repliche esatte in questo caso si presentava anche un problema filologico da risolvere, essendo stata la “Venere de’ Medici” oggetto di un restauro integrativo che vide l’aggiunta degli avambracci.
Ciò che Canova realizzò fu un marmo in cui la pudicizia esalta l’eros e che risultò essere, a detta
del Foscolo, ancora più bella dell’opera desiderata dalla committenza. A rendere più suggestivo il percorso è la presenza di foto di grande formato delle stesse sculture presenti nelle sale, opera del fotografo dell’antichità Luigi Spina che, attraverso la luce, ripropone dettagli ed esalta la sensualità delle statue.