– Daniele Burchi –
Stefano Vannelli, regista indipendente, sceneggiatore e produttore cinematografico pisano, nel 2015 ha esordito a Venezia tra i vip del Cinema dell’Arte e dello Spettacolo presentando il cortometraggio “Vuoto a perdere”, vincitore del premio Fedic e di altri riconoscimenti internazionali. Ha all’attivo numerosi documentari e lungometraggi.
Da dove proviene la sua passione per il cinema?
“Nasce in tempi non sospetti, all’età di 10 anni, dopo aver visto in quantità industriali i vari ‘cappa e spada’, mi sono appassionato ai vecchi film che trasmettevano le prime emittenti private all’inizio degli anni Ottanta. Rimasi colpito da capolavori come ‘Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto’ di Elio Petri, vincitore del premio Oscar come miglior film straniero con uno straordinario Gian Maria Volonté, così come da ‘Il marchese del Grillo’ di Mario Monicelli e da molti film neorealisti. Sempre in quel periodo, a Pisa sono stato tra i primi possessori di un videoregistratore, ricordo che andavamo dal De Paola a comprare le videocassette che lui conservava in frigorifero…Sempre da ragazzino mi appassiono alla fotografia, seguendo le orme di mio padre, facevo fotografie in bianco e nero e le sviluppavo e stampavo da solo. Lì c’è stato un imprinting pauroso, trovavo affascinante la camera oscura, un luogo buio, illuminato solo da una luce rossa, dove quasi per magia le immagini prendevano forma. Nei primi anni ‘90 scrivo in vernacolo pisano un romanzo corto, rimasto ancora inedito, che narra il rapporto con la mia moto; probabilmente è dall’unione di queste due passioni, la fotografia e la scrittura, che ho iniziato a girare i primi filmettini. Nel 2007 inizio a fare qualcosa di più strutturato, corsi di formazione, a conoscere gente, a far parte di un’associazione che si occupa di cinema e da lì sono andato avanti”.
Quali sono le sue maggiori influenze cinematografiche? Il nome della sua società di produzione che è Otto e mezzo film dà evidenti indizi…
“Sì infatti, innanzitutto lui: Federico Fellini, il mio grande ispiratore… veramente straordinario. Specialmente la sua prima filmografia perché nonostante io lo ami sconfinatamente, mi piace soprattutto fino al 1979 anno in cui muore Nino Rota, sua anima musicale. Io mi sono fatto l’idea che loro fossero una coppia come Stanlio e Ollio, o i fratelli Marx, nel senso che erano inscindibili. A mio avviso successivamente il suo cinema perde una certa autenticità nonostante rimanga follemente fantasioso. Fellini non lo puoi imitare, puoi essere sulla sua stessa lunghezza d’onda, puoi utilizzare il non metodo felliniano, quello sì, io lo faccio… L’ultimo film che sto cercando di produrre è fortemente ispirato a 8½. Tra gli altri grandi maestri a cui mi ispiro la coppia Age & Scarpelli, che ha sceneggiato tantissimi film neorealisti italiani, il grandissimo Sergio Leone e lo straordinario Pietro Germi”.
Lavorando nella scuola ho sempre creduto molto nell’importanza di far vedere ai miei studenti determinati film: Gandhi, Balla coi lupi, piuttosto che La vita è bella o Storia di una ladra di libri. La visione di un film può essere una forma di apprendimento?
“Sono d’accordo… mi ha dato l’opportunità di ritornare alla prima domanda, su quando ho veramente cominciato a interessarmi di cinema. Quando frequentavo geometri la mia professoressa di italiano un bel giorno ci disse: ‘Oggi vediamo un film’. Questo film si chiamava Amarcord e mi ha segnato veramente, io lì divento felliniano, mi innamoro completamente di Fellini. Amarcord significa i miei ricordi e i ricordi di Fellini sono incredibili, perché è come se lui ti dicesse: “’a questi miei ricordi nasce il regista Fellini’. Il cinema ti dà l’emozione, l’esperienza, cioè te in quelle due ore lì, se il film è fatto bene, sei dentro la storia, e questa è un’esperienza pazzesca, per questo ci vuole etica nel fare un film. Nel cinema avere un atteggiamento etico è fondamentale, devi rispettare il pubblico, non devi manipolarlo e non lo devi far diventare peggiore di quello che era prima della visione della tua opera. L’opera deve fare riflettere verso il positivo. Il cinema si basa sull’emulazione quindi è un processo che ti porta a diventare o avvicinarti ai protagonisti, ad emularli”.
Un film che invece non le piace?
“Arancia Meccanica. Pur essendo una grande pellicola, realizzata con delle grosse capacità registiche – e questo aggrava ancora la situazione – è un film maledetto perché sdogana la violenza gratuita, che non è la violenza di ‘C’era una volta l’America’ dove c’è una motivazione dietro e la violenza non è fine a se stessa”.
Che cos’è per lei il cinema?
“Una delle sensazioni che mi dà il cinema è ‘la conquista del territorio’. Faccio un esempio: noi giriamo una scena dove uno sta intervistando un regista, è questa qui dove siamo noi, in questo momento, e abbiamo deciso che questa intervista avverrà sul viale delle Piagge. La notte col gufo che bubola, arriviamo qui, posizioniamo tutto e conquistiamo questo spazio. Cioè questo spazio diventerà il nostro, fino a quando non avremo realizzato la scena e questo è assolutamente un luogo conquistato con una storia unica che è scaturita da noi ovvero da me e la troupe del film. Questa è una cosa che mi ha sconvolto, mi ha toccato. Io ero già trasportato dal cinema, dalla fantasia, da tutto ciò che devi mettere per fare un film, quindi cominci a ragionare in quel meccanismo lì… è un transfert che prima avevo vissuto con le fotografie in bianco e nero. Ho avuto un grande maestro Ansel Adams che mi ha insegnato a vedere in bianco e nero. Per un certo periodo vedevo in bianco e nero, ma non ero daltonico, semplicemente avevo fatto un processo – che lui ti spiega e ti insegna – di visualizzazione dell’immagine, per cui io mentalmente vedevo un bianco e nero; vedevo le foglie come erano in una foto in bianco e nero e questo transfert mi ha portato a diventare un mezzo folle. Col cinema traslo invece su questo mondo che è ancora più sfaccettato, più infinitamente esplosivo in ogni direzione. Questo è il cinema per me mi conquista la mente, mi travolge, diventa qualcosa di ascetico, mi fa trascendere e mi porta in un’altra dimensione”.
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro?
“È fondamentale per l’esistenza umana per riuscire a capire l’oggi, dove sei sempre e comunque, e cosa può essere per te il futuro. Io non sono uno che conosce le date, ma conosco i flussi e gli avvenimenti storici e per un regista basilare conoscere il passato per scrivere le storie, perché è lì che riesci a immaginare una storia e dargli una credibilità necessaria e doverosa”.
Quali sono i temi delle sue storie?
“I temi delle mie storie variano, ma sono comunque storie comuni, nella mia ultima sceneggiatura, al protagonista, gli viene posta proprio questa domanda e lui risponde: ‘È una storia di gente comune, non per questo non è avventurosa, non tutti nasciamo Gengis Khan'”.
In una videoteca seria secondo te quali film o autori non dovrebbero mancare?
“Sicuramente i film di Federico Fellini come ‘La strada’, ‘Amarcord’, ‘Giulietta degli Spiriti’ e ‘8½’. Poi ovviamente i film diretti dal mitico Sergio Leone insegnante del cinema moderno a tutto il mondo. Per la fotografia penso a ‘Un tranquillo posto di campagna’, che è un giallo di Elio Petri, e a qualche film di Marco Ferreri, tipo ‘Ciao Maschio’ con un giovanissimo Gerard Depardieu, e poi Tornatore e tanti altri…una Lina Wertmuller ci vorrebbe per forza…”
In questo periodo come trova lo stato del cinema italiano?
“Un pochino meglio, c’è un po’ di ripresa. Ci sono attori importanti che sono cresciuti molto, sono una generazione che oramai è arrivata alla maturità e sono molto bravi, ti parlo dei Favino, Kim Rossi Stuart ci sono veramente tanti, ne potrei citare molti. Nella regia anche lì ci sono delle buone cose, la commedia italiana di qualità sta un pochino risorgendo. Sorrentino è un bravo regista, Virzì pure, lui è quello che forse mi ricorda di più i grandi del passato. C’è stato un grosso periodo di buio, con un cinema monotematico, legato troppo alla sovvenzione statale”.
Quali sono i prossimi progetti che ha in cantiere?
“Il primo grande progetto è un film che si intitolerà ‘Cento’. Poi ci sono una serie di documentari molto particolari che sono tutti lì fermi, uno parla di Luca Ward che è un attore non famoso, ma è uno dei più grandi doppiatori al mondo, è la voce del Gladiatore per dirne una, ma io tutti i giorni lo sento negli spot da tutte le parti. L’ho conosciuto durante una fase di doppiaggio di un film dove ero lì a doppiare, è una persona splendida umanamente parlando e una voce pazzesca con una storia fantastica, quindi mi piacerebbe fare una cosa su di lui, glielo avevo detto e lui era stato assolutamente d’accordo, contento”.
Quali sono, da un punto di vista pratico, le competenze necessarie per un regista, che cosa deve saper fare?
“Il regista indipendente e low budget deve saper fare un po’ di tutto, diversamente invece dalle grandi produzioni. La cosa fondamentale comunque, è avere una visione artistica e una grande interazione col direttore della fotografia”.
Quali consigli darebbe a un giovane che voglia intraprendere la sua strada?
“Prendere la telecamera in mano e cominciare a girare, questo è il consiglio migliore che gli possa dare”.
Daniele Burchi