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Uomini e topi

- Cultura, Primo piano
28 Settembre 2024

– Renato Sacchelli –

Davanti al metato dove si era rifugiata la mia famiglia, nell’estate del 1944, tra il Pelliccino e il Colle, un pomeriggio del mese di luglio o del mese successivo, si presentò una pattuglia di militari tedeschi al comando di un ufficiale. Nella nostra lingua che parlava abbastanza bene, ci disse che da lì dovevamo andare via. “Via, via! Subito! Guerra! Guerra! Gli americani sono vicini e fra pochi giorni ci saranno i primi scontri”. In preda ad una comprensibile paura tutti rimanemmo senza parole. L’ordine era perentorio. C’era ben poco da dire e da fare, in fondo si trattava della nostra sopravvivenza. Dove andiamo? Sgomento e smarrimento trasparivano dagli occhi dei miei genitori. Sotto di noi, in fondo alla stretta valle, si vedevano i tetti delle case di Riomagno, troppo vicine alle postazioni tedesche per pensare di rimanere laggiù. Più in alto a metà del monte che avevamo davanti, tra le foglie dei castagni si intravedevano le case di Giustagnana e fu proprio in quella località che mio padre decise di andare.

Lasciammo il metato con le poche cose che avevamo. A me fu affidato il compito di portare il materasso dal quale, quando qualche anno prima fu promossa, a scuola, una raccolta di lana da destinare alla produzione di maglieria e di calzettoni per i nostri soldati in Russia, mia madre ne estrasse alcuni pugni. Come appariva lontana la guerra da noi, il cui esito vittorioso all’inizio nessuno osava mettere in dubbio. Avevamo otto milioni di baionette e i canti “Vincere e vinceremo in cielo in terra e mare…”, “Partono i sommergibili”, forieri di tante illusioni e di troppo facili ottimismi. Per noi ragazzi, nati figli della Lupa, poi divenuti balilla e infine balilla moschettieri, la partita si stava chiudendo in modo davvero imprevedibile e non come tante volte ci avevano fatto credere o sperare.

A Riomagno, che raggiungemmo in poco tempo, c’era una grande confusione con tanta gente che scappava dalla zona arrampicandosi sul monte per raggiungere i paesi sovrastanti di Giustagnana, Minazzana, Fabbiano e Azzano. Giunto alle piane del Loghetto, mentre mi riposavo, mi passarono accanto due fratellini, un bimbo e una bimba. L’uno con delle pentole e l’altra con dei piatti in mano. Gli occhi neri e tanto sbarrati della piccina esprimevano la grande paura di cui doveva essere in preda. Quello sguardo terrorizzato non l’ho mai dimenticato. Dopo aver ripreso l’arrampicata giungemmo vicino alla chiesa di Giustagnana, dove sostammo, ai margini della mulattiera, in attesa che mio padre facesse ritorno dal centro abitato in cui subito si era recato alla ricerca di una stanza dove poterci trascorrere almeno la notte.

Quando ritornò bastò guardarlo in faccia per capire l’esito negativo delle sue ricerche. Peraltro Giustagnana già da tempo era gremita di sfollati. Tutte le casupole ubicate lungo i pendii, adibite a ricovero degli attrezzi, erano state occupate da tanta gente ch’era fuggita dalle loro case sul mare o dall’immediato retroterra. “Stanotte si dorme sotto un castagno!”. E mentre mio padre pronunciava siffatte parole, fu udito anche da due uomini che con la “giubba” (giaccone, ndr) sulle spalle e con il pennato attaccato alla cintura dei pantaloni, all’altezza del fondoschiena, facevano ritorno a casa dopo aver lavorato nei boschi o nelle selve, l’unica attività che potevano ancora svolgere essendo state da tempo chiuse le cave e tutte le aziende della Versilia. “Potete sistemarvi in chiesa, ci sono già altri sfollati”, disse uno di loro. Quando mio padre fece ritorno bastò guardarlo in faccia per conoscere l’esito negativo delle sue ricerche. Nessuno ci diede una mano. Peraltro Giustagnana già da un po’ di tempo era gremita di sfollati. Tutte le casupole che c’erano in quel tempo lungo le pendici del monte, solitamente adibite al ricovero degli animali e degli attrezzi da lavoro con visibile soddisfazione. Rifugiarsi in chiesa? A me parve una cosa incredibile da farsi, ma non c’erano altre soluzioni e lì dovevamo andare se non avessimo voluto trascorrere la notte all’addiaccio.

Fui proprio io che, poco dopo, varcai la soglia della casa di Dio. A prima vista mi sembrò che all’interno non ci fosse più spazio tanta era la gente che l’aveva occupata. Fatti alcuni passi tra i materassi e le altre cose sistemate con ordine sul pavimento della chiesa, vidi che ai piedi di un altare non c’era nessuno, era il solo posto rimasto libero. Tirai un grosso sospiro di sollievo. Intanto gli ultimi raggi del sole che stava per scomparire dietro il crinale del Monte Canala, penetrati a fasci attraverso le vetrate colorate, illuminavano ancora l’interno del sacro edificio, nel quale spiccavano le immagini sacre e si muovevano esseri umani colpiti dalla sventura. Per un attimo mi sembrò di essere al centro di una scena irreale. Raccolta frettolosamente della legna secca e acceso il fuoco furono cotte le ultime piccole patate. E con la fame che ancora sentivamo forte ci distendemmo sul materasso addosso ai nostri genitori. Quattro figli: un nido. Quando stavo per chiudere gli occhi uno sfollato fu improvvisamente colpito da convulsioni. Conoscevo questo uomo: a Seravezza ogni domenica vendeva i giornali lungo le vie del paese. “Aiuto, aiuto…”, gridavano i suoi familiari. In un attimo tutti gli uomini che erano in chiesa gli si avvicinarono per tenerlo fermo. Appena sentii dire “si è calmato” di colpo mi addormentai.

Quei giorni trascorsi a Giustagnana li ricordo come i più tribolati della mia vita. Nessuno pensò di scavare delle fosse per i bisogni fisiologici, motivo per cui quando si era costretti a inoltrarsi nella vicina selva, non si poteva ritornare in chiesa se prima non si passava dal canale per lavare bene i piedi, tanto puzzavano per aver calpestato gli escrementi umani di cui quel terreno era pieno.

Io non ce la facevo più a vivere in quel posto, troppo grande era la sofferenza. Esortai i miei genitori a cercare qualche casupola dove trasferirci. Fortunatamente trovammo una casettina tutta rovinata, tra Giustagnana e Fabiano, non più utilizzata dall’uomo, motivo per cui da tempo doveva essere il regno incontrastato dei topi visto lo spessore degli escrementi, alto diversi centimetri, formatosi col trascorrere del tempo sotto le tavole del piano rialzato. Dopo aver fatto riparare il tetto a nostre spese ed averla ripulita quella piccola casupola che aveva una finestrina mi sembrò persino bella. Lì trascorse pochi giorni anche mia nonna Marianna, che all’inizio dello sfollamento era stata ricoverata all’ospedale di Valdicastello. La portò lassù mio padre sulle spalle, quando venimmo a sapere che, dimessa inspiegabilmente dal nosocomio, aveva fatto lentamente ritorno nella sua casa del Ponticello, dove fu assistita, non so per quanti giorni, dalla famiglia Landi che non aveva ottemperato all’ordine di sfollamento, continuando a rimanere nella propria abitazione fino al momento in cui i tedeschi decisero di far saltare in aria l’intero rione. Senza l’aiuto della famiglia Landi sicuramente mia nonna sarebbe morta di fame e di sete. E in quella casettina di Giustagnana che pareva dell’uomo primitivo, tanto piccola da poter sembrare quella di Biancaneve e i sette nani, rimanemmo fino alla caduta delle castagne e alla nascita dei primi funghi. Fu proprio in quei giorni che a Giustagnana arrivarono i soldati di colore statunitensi della divisione Bufalo.

Raccogliere le castagne proprio davanti al nostro rifugio era un sogno che non poteva durare e infatti non durò. Quando dopo l’arrivo dei soldati americani, mia madre rimase ferita ad una gamba dalle schegge dei colpi di mortaio coi quali i tedeschi accolsero l’arrivo dei soldati americani, fummo costretti a rifugiasi in un fondo del centro abitato adibito alla custodia di attrezzi per lavorare la terra. In un angolo c’era anche un mucchio di fieno. Mia madre ferita fu medicata dai soldati americani. E così mentre la natura donava i suoi frutti nutrienti e saporosi, la guerra scatenata da uomini folli che con la forza delle loro armi volevano imporre ai propri simili le loro ideologie e i proprie interessi, senza alcuna considerazione per i diritti sacri e inalienabili dell’uomo, primo fra tutti quello della libertà, continuava a mietere vittime innocenti. Che stridente contrasto tra il mondo fantastico e meraviglioso e la libertà repressa nella maniera più violenta da essere spregevoli che meriterebbero di bruciare in eterno fra le fiamme dell’inferno.

Renato Sacchelli

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Un fiume unisce la Toscana e rappresenta il modo di vivere forte e intraprendente del suo popolo. L'Arno.it desidera raccontarlo con le sue storie, fatiche, sofferenze, gioie e speranze. Senza dimenticare i molti toscani che vivono lontani, o all'estero, ma hanno sempre nel cuore la loro meravigliosa terra.

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